ZELDA, AD NOVAM VITAM, di Barbara Riboni - 1° Spin off dedicato a “PACTUM VAMPIRI” - Ed. 2013

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view post Posted on 9/3/2013, 21:46
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Sono fatta così...un enigma avvolto in un indovinello e confezionato in un paradosso!

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Avete letto “PACTUM VAMPIRI” e siete curiosi di sapere di più sul passato controverso della magnifica Zelda e dei suoi rapporti con l'affascinate Max?
Volete sapere come Zelda e Amedeo si sono conosciuti?

In esclusiva per "LE ANTEPRIME DI INSAZIABILI LETTURE", abbiamo il piacere di presentarvi

"ZELDA, AD NOVAM VITAM"
1° Spin off dedicato a “PACTUM VAMPIRI”.
Barbara Riboni ci trascinerà in un vortice di azione e sentimenti.


zeldaadnovamvitam

Copertina realizzata da Giovanna Lubrano Lavadera.
Illustrazione realizzata da Livia De Simone.






LA FUGA

Stavo correndo e nelle orecchie sentivo solo i pesanti colpi degli zoccoli sullo sterrato.
Dovevo correre via da lì.
Da lui e dalla mia maledetta dipendenza dalle sue mani, dalle sue labbra, dal suo odore.
In groppa al cavallo baio, correvo a perdifiato per le campagne fuori Roma spingendo la mia cavalcatura a superare il suo limite estremo pur di mettere la massima distanza tra me e la residenza dei Dòmini.
Scostai una ciocca di capelli corvini talmente fradicia per la pioggia scrosciante da essersi incollata al volto.
La scacciai rabbiosa dagli occhi asciugandomi con una mano il viso inondato dalle lacrime e dalla disperazione,mentre proseguivo ciecamente nella mia folle corsa senza sapere nemmeno in quale direzione.
Non so per quanto tempo continuai. Per ore probabilmente, finché non ebbi più lacrime.
Finché sentii che i polmoni del cavallo non avrebbero più retto. Finché non sentii più nel naso il profumo di quel magnifico bastardo.
Allora rallentai, lasciai che il galoppo si riducesse ad una morbida andatura sostenuta e, dopo qualche minuto, finalmente mi fermai in una radura al riparo di un grosso castagno che ci proteggeva un poco dall’incessante pioggia notturna.
Smontai e rimasi accanto al cavallo, respirando affannosamente quanto lui per la tensione e la stanchezza.
Affondai il naso nel soffice pelo invernale e inspirai il suo forte odore muschiato trovando conforto nel calore che il suo corpo irradiava al mio. Nuvolette di vapore si levavano dai suoi fianchi mentre rivoli di sudore cadevano e si mescolavano al fango sotto i nostri piedi.
Mi sentivo come quel fango: un ammasso informe e schifoso da calpestare o meglio da evitare per non esserne imbrattati.
Avevo abbandonato la mia casa, mia sorella, mio padre e tutto il mio mondo e non avevo avuto altra scelta se non quella di andarmene poiché l’alternativa sarebbe stata impazzire.
Amavo un uomo che non mi voleva e non riuscivo a farmene una ragione.
Avevo fatto di tutto per averlo. Ero stata pronta a qualsiasi sacrificio per dividere l’esistenza con lui ma la verità era che lui non provava gli stessi sentimenti nei miei confronti e non aveva avuto remore nel dirmelo chiaramente in faccia il giorno prima.
Rividi la sua figura slanciata attraversare l’ingresso della residenza di famiglia, la sua lunga falcata avanzare nel cortile sottostante le mie finestre del piano di sopra.
Se avessi avuto un cuore pulsante sarebbe esploso dalla felicità in quel momento.
Era tornato. Dopo quattro mesi di attesa finalmente Max era tornato.
Eccitatissima, avevo controllato la mia immagine allo specchio prima di correre ad accoglierlo: il vestito di velluto verde scuro mi stava alla perfezione e strizzava i seni esponendoli quasi al limite del decoro.
Le mie mani sulla vita, stretta dal corsetto, avevano spazzolato nervosamente i fianchi per eliminare pieghe inesistenti, poi avevo pizzicato le guance a richiamare il poco sangue che mi scorreva in corpo e ravvivarne il colore.
Lo specchio mi restituiva l’immagine di una giovane donna dagli occhi color smeraldo che brillavano di felicità all’idea di riabbracciarlo, le cui labbra sembravano più gonfie e tumide per l’aspettativa.
Avevo controllato le ciocche corvine imbrigliate in una complicata acconciatura inclinando il capo a destra e sinistra poi, soddisfatta, mi ero precipitata fuori dalla stanza per andargli incontro.
Lui stava già risalendo a passo spedito l’enorme scalinata in marmo che, occupando gran parte dell’immenso androne, portava al piano superiore.
- Max! – Avevo gridato correndo verso di lui – Max, sei tornato! –
Al suono della mia voce lui si era fermato. A metà strada, aveva alzato lo sguardo verso di me e i suoi magnifici occhi, grigi e cupi come le nubi cariche di pioggia, avevano incontrato i miei restando freddi e privi di emozione.
Il sorriso si era spento sulle mie labbra alla sua occhiata gelida e lui doveva aver capito la mia delusione perché l’espressione si era ammorbidita e le sue sopracciglia nere si erano leggermente distese.
- Buona sera Zelda, – rispose riprendendo a salire le scale senza più guardarmi – pensavo fossi già tornata a Napoli. Come mai sei ancora qui? –
Avevo colto la sottile ironia della domanda e mi aveva ferito ma finsi di non averlo notato .
- Non avevamo finito la discussione quando te ne sei andato quattro mesi fa – gli avevo risposto trattenendomi.
- Tu forse non avevi finito Zelda. Io invece ritengo non ci sia altro da aggiungere. Devi andartene a Napoli. Non c’è più ragione che ti trattenga a Roma. –
Mi era passato accanto terminando la frase e aveva proseguito verso le sue stanze senza nemmeno rallentare, obbligandomi a corrergli dietro per continuare la conversazione.
- Te ne sei andato senza nemmeno dirmelo! –
- Qualcosa ti fa pensare che avrei dovuto? – mi aveva chiesto bloccandosi di fronte alla porta d’ingresso delle sue stanze.
- Sei un bastardo! –
- E tu una vera signora! – aveva risposto sferzante, evitando uno schiaffo in pieno viso mentre entrava in camera.
Io l’avevo seguito e, una volta all’interno, mi ero guardata intorno alla ricerca di un oggetto abbastanza pesante da tirargli addosso.
- No … fai la brava Zelda … - aveva cercato di rabbonirmi tendendo le mani verso di me nella speranza che mi calmassi – mi piace questa stanza. L’ultima volta per ristrutturare il casino che avevi combinato ci sono volute tre settimane di lavori. -
- Ti preoccupi dell’arredamento? – avevo gridato io tornando a cercare un’arma contundente. – Quattro mesi! – Trovato un piccolo vaso di fiori alla mia sinistra accanto all’ingresso glielo avevo lanciato contro.
Lui l’aveva scansato senza difficoltà muovendosi alla velocità che solo il nostro popolo poteva vantare lasciando schiantare la ceramica contro la parete di fronte.
Mi aveva guardato torvo però, inclinando la testa e studiando la mossa successiva.
- Non ti ho mai promesso di restare – aveva provato a giustificarsi con tono calmo e controllato.
- Caius è morto, non c’è più Max. Il terzo triunvirato è caduto e tu ora “devi” restare a Roma. Per governare, insieme ai tuoi fratelli. –
- Alessandro e Marco sanno cavarsela in mia assenza – aveva risposto un po’ a disagio – e comunque questo non ha nulla a vedere con le cose tra noi. –
- Noi stiamo bene insieme Max. Perché non lo vuoi riconoscere? –
Aveva fatto un passo avanti verso di me senza però avvicinarsi troppo , senza prendermi tra le braccia e ammettere finalmente quanto avessi ragione.
- Zelda, se anche io decidessi di restare a Roma definitivamente … noi non staremmo mai insieme. Io non ti voglio qui, non ti voglio intorno. Te ne devi fare una ragione e tornare a Napoli. –
Aveva scandito le parole come se parlasse ad una bambina, con una cantilena crescente che era diventata quasi esasperata sul finale.
Il petto mi si era stretto come se mi avesse preso a calci sullo sterno. E la rabbia era arrivata di nuovo: afferrato un grosso piatto di marmo da un piccolo tavolo rotondo glielo scagliai addosso.
Per poco non lo avevo decapitato. Poi a raffica tutto quello che mi ero ritrovata tra le mani: la testa in bronzo di qualche pensatore romano, l’attizzatoio del camino, due grossi e pesanti volumi abbandonati sopra un’ottomana, una spazzola di oro zecchino ... mi muovevo per la stanza e gli scagliavo addosso tutto quello che mi veniva sotto tiro.
Lui era riuscito a evitare tutti i proiettili, schivando e afferrando al volo quello che riusciva a salvare, finché non avevo agguantato un braciere accesso con tanto di tizzoni ardenti all’interno.
- Mettilo giù Zelda – mi aveva intimato. – E’ pericoloso il fuoco … avanti posalo. –
- E se non lo faccio Max? Cosa farai? – l’avevo sfidato sprezzante.
- Posalo Zelda, mi sto infuriando davvero – aveva risposto pericolosamente controllato.
- Sono terrorizzata – gli avevo risposto sorridendo e scoprendo le zanne che stavano affiorando per l’adrenalina che mi girava in corpo.
- Non obbligarmi a togliertelo dalle mani, sarebbe umiliante per te – mi aveva minacciato.
Io non ho un carattere facile e non mi lascio domare facilmente. Nemmeno da lui.
Feci oscillare due volte il braciere e glielo lanciai addosso rischiando pericolosamente di incendiarlo e in tal caso di ucciderlo.
Lui scansò con un po’ più di difficoltà il proiettile e lo guardò schiantarsi sui vetri della grande finestra dietro di lui, poi si voltò a fronteggiarmi.
Aveva le zanne completamente esposte e gli occhi furibondi, la cui pupilla ellittica non nascondeva la trasformazione.
Mi fu addosso e mi obbligò contro il muro con la bocca a pochi centimetri dalla mia gola.
- Te ne devi andare – Sibilò avvicinandosi alla mia guancia – Non ti voglio più qui a Roma ad aspettare ogni volta come un cane fedele il mio ritorno –
Mi era bastato girarmi di pochi gradi e la sua pelle era entrata in contatto con le mie labbra: morsi con tutta la rabbia che avevo e quasi gli strappai un orecchio dalla testa.
Aveva lanciato un urlo e mi aveva gettato sul letto. Poi mi aveva raggiunto con un balzo e mi aveva inchiodato mettendosi a cavalcioni sul mio corpo.
Si controllò l’orecchio passandoci una mano e osservando le grosse macchie di sangue che la ricoprivano.
- Strega, – mi aveva detto ringhiando - avrebbero dovuto bruciarti sul rogo! -
- Ci hanno provato quei bastardi quando ero ancora umana – avevo risposto ansimando per la lotta.
Di colpo mi aveva strappato il corsetto esponendo completamente i seni e con un lembo del vestito si era tamponato la ferita. Mentre io cercavo di coprirmi, i nostri sguardi si erano incontrati e il suo, magnifico nella versione vampirica, mi aveva restituito una scarica di passione.
Mi accorsi che era eccitato nel momento in cui la sua bocca calò violentemente sulla mia.
Finì di stracciarmi l’abito senza smettere di baciarmi nonostante i lunghi canini di entrambi graffiassero le labbra uno dell’altra.
Lo spogliai bramosa senza nemmeno accorgermene e poi finalmente fu dentro di me.

Avevo aperto gli occhi nel grande letto di Max parecchie ore dopo, quando il sole era ancora alto nel cielo del primo pomeriggio e le spesse tende di broccato scuro alle pareti ci proteggevano dalla sua luminosa perfidia lasciando passare solo una sottile lama di luce accecante. Qualcuno le aveva tirate sopra i grandi vetri infranti la notte prima e ora il tessuto si muoveva piano al vento gelido di gennaio.
Avevo cercato il mio amante accanto a me ma non lo avevo trovato.
Ero avvolta nelle lenzuola che profumavano di lui.
Poi , acquistando in pochi istanti la visione notturna, l’avevo riconosciuto. Era seduto su una poltrona Luigi XVI completamente vestito, al buio, in attesa che mi svegliassi.
Sembrava rilassato, aveva una gamba incrociata sull’altra e faceva dondolare appena la scarpa lucida che gli avvolgeva il piede.
- Buongiorno Zelda – mi aveva salutato greve.
Il suo tono non mi era piaciuto e non mi era piaciuto nemmeno che non fosse più accanto a me.
Mi ero seduta allora in mezzo al letto con le coltri avvolte a coprire il mio corpo nudo e sulla bocca ancora il suo sapore.
- Me ne vado – mi aveva detto a quel punto. – Giusto perché tu non possa dire che non ti ho avvisato. Non so per quanti mesi … ma quando tornerò non voglio trovarti ancora in questa casa. Prendi le tue cose e vai dove vuoi ma non farti trovare qui al mio ritorno. Io non posso darti quello che tu vuoi. Non posso darti nulla più di quello che ti ho dato qualche ora fa. Sei uno splendido animale da letto Zelda ma io non cerco compagnia stabile. –
Si era alzato e se ne era andato irriverente nei confronti del sole che mi impediva di seguirlo fuori dalla Domus ma non impediva a lui di allontanarsi per l’ennesima volta da me senza rimorsi e senza dolore.
Poche ore dopo, quando il mio stato mi concesse di farlo, lasciai la sua casa e Roma per sempre.
Avevo preparato ciò che intendevo portare con me e l’avevo messo in due grosse borse.
Avvisato mia sorella di non cercarmi e di non provare a trovarmi, volevo solo sparire. Più male di così non potevo comunque stare.
Ed ero partita quella sera stessa appena il crepuscolo mi aveva concesso la fuga. Subito dopo aveva iniziato a piovere e il cielo si era sentito in buona compagnia piangendo tutte le sue lacrime insieme a me per tutto il tragitto.
Ora, in quella radura, le lacrime erano finite e la pioggia sembrava a poco a poco diminuire di intensità.
Cosa avrei fatto ora?
Dove sarei andata?
Se avessi potuto morire mi sarei avvelenata o avrei aperto le vene sino a dissanguarmi, ma la verità è che io non posso morire.
Appartengo alla razza dei vampiri, la condanna e l’assoluzione stanno proprio in quello.



LA MAJELLA

Dopo un tempo che non saprei calcolare, finalmente la pioggia cessò.
Il rumore dell’acqua scrosciante si chetò sino a diventare un leggero ticchettio sulle fronde degli alberi e io mi decisi a riprendere la strada verso le montagne che vedevo all’orizzonte.
Roma era ormai distante alle mie spalle ma davanti a me l’alba si affacciava inesorabile con le sue terrificanti sfumature lilla.
Pensai che avrei potuto avanzare attendendo che il sole mi carbonizzasse da lì a qualche ora emergendo dal versante più alto ma uno sguardo al cielo mi confermò che per il momento quella soluzione sarebbe stata poco praticabile.
Densi nuvoloni riempivano ancora la notte sopra di me e si infittivano nella direzione in cui mi stavo muovendo.
Proseguii a piedi tenendo le redini del cavallo che sembrava abbattuto quanto me e mi camminava accanto con la testa bassa, sbuffando nuvolette di vapore dalle froge per il respiro ancora leggermente affannato.
Il mantello inzuppato d’acqua pesava come un macigno e i vestiti mi si stavano ghiacciando addosso ma io non vi prestai attenzione. Il peso non era un problema per me e nemmeno il freddo.
Quando raggiunsi un casolare isolato ai margini di un grosso appezzamento di terra coltivato, la luce del giorno incominciava ad illuminare il crinale di fronte a me. Un contadino si stava preparando a rivoltare la terra scura con l’aratro per prepararla all’arrivo della primavera.
Alzò lo sguardo dalle cinghie di cuoio del giogo che stava allacciando alla coppia di grossi buoi che lo avrebbero aiutato nel duro lavoro e mi fissò curioso.
Non doveva essergli capitato spesso di vedere una giovane nobildonna benvestita vagabondare sola per la campagna di confine tra le terre di Roma e di Chieti.
Il mio cavallo aveva bisogno di fieno e acqua quindi lo fissai a mia volta e mi avviai per raggiungerlo.
Mi osservò per tutto il tempo che la mia andatura umana impiegò a raggiungerlo e poi aspettò che fossi io la prima a parlare.
- Vorrei del fieno e dell’acqua per la mia cavalcatura villano. Un posto dove riposare e degli abiti puliti. Posso pagare – lo rassicurai.
Presi una moneta dalla bisaccia vicino a me e gliela lanciai, sicura che l’avrebbe accettata.
Lui afferrò la moneta d’oro e la soppesò in una mano. Abbandonò l’aratro e senza dirmi una parola si incamminò verso il casolare.
Rimasi fuori dalla porta dopo averlo seguito trascinandomi dietro il cavallo e non dovetti attendere molto prima che dall’uscio uscisse una giovane donna rubiconda, attorniata da una covata di bambini di svariata altezza e diversa età, che mi squadrò con curiosità.
Si asciugò le mani sul grembiule vissuto e mi sorrise cercando di scollarsi di dosso i figli che le si erano attaccati alle gonne.
- Vuole mangiare signora? – mi chiese nel modo più cortese che riuscì a trovare.
-No, - risposi valutando il cielo sopra di me e la luce che stava diventando qualcosa più che l’annuncio dell’alba – Vorrei un posto per riposarmi qualche ora e del cibo per il cavallo. –
Ero stremata. Sporca, bagnata da cima a fondo e dovevo avere l’aspetto di una sventurata, vittima di chissà quale disgrazia.
Lo sguardo del fattore, alle spalle della moglie, era guardingo ma la ragazza invece mi sorrise nuovamente e mi invitò ad entrare in casa facendosi da parte.
- La stalla andrà benissimo per me e il mio cavallo – risposi scuotendo il capo.
- Ma signora … -
- Avrò solo bisogno di un po’ d’acqua per lavarmi e il cibo per la mia cavalcatura – confermai risoluta.
Non volevo compagnia. Volevo solo un posto dove nascondermi e poi riprendere il viaggio verso la montagna fino a quando non sarei stata abbastanza isolata da lasciarmi incendiare dal sole senza che la mia pira richiamasse l’attenzione degli abitanti del luogo.
La donna borbottò un assenso deluso ma mi indicò la stalla sul retro del casolare e io mi ci avviai stancamente.
Aspettai che il fattore aprisse il pesante portone a doppio battente e entrai, finalmente ero protetta dalla sicura ombra del fienile, al riparo dai raggi ormai imminenti.
- Le porto subito, che ha da lavarsi – mi disse l’uomo cercando le parole nel suo strano vocabolario come se faticasse a metterle insieme.
Io mi lasciai cadere su un covone di fieno e lui richiuse il portone allontanandosi.
Non sapevo dove fossi esattamente ma dalla cadenza dell’uomo mi ero spostata parecchio da Roma e le montagne che avevo notato dovevano appartenere alle terre dell’altro mare.
Dovevo raggiungere quelle montagne. Lassù, in mezzo al nulla, mi sarei lasciata uccidere dalla fame o dal sole, non era importante.
Non avrei mai più rivisto Max e le sue belle labbra imbronciate. La sua mascella scura per la barba accennata e i capelli neri e lucidi come la seta.
- Fottiti! – esclamai disturbata dal fatto che anche in quel momento di disperazione occupasse la mia mente.
Poco dopo l’uomo tornò con due grossi secchi d’acqua che appoggiò accanto all’ingresso.
Si diresse in un angolo e raccolse con il forcone una grossa porzione di fieno che sistemò davanti al cavallo. Poi recuperò uno dei secchi e glielo mise accanto prima di fare cenno al secondo.
- Quello per le sue faccende – mi disse senza mai guardarmi in faccia. – Mia moglie ci da la cena dice –
- Grazie. Dica a sua moglie che preferisco non cenare e che sono molto stanca perciò mi riposerò sino a sera. –
Lui alzò le spalle poco convinto ma si avviò all’uscita senza aggiungere altro e richiuse la stalla che piombò nella semioscurità.
Nel silenzio totale l’unico rumore era l’incessante ruminare del cavallo che stava apprezzando il fieno e lo zampettare di un paio di topi che il mio udito sensibile captava sul soppalco del fienile.
Mi feci forza, mi alzai e mi tolsi gli abiti di dosso uscendo dal vestito di damasco che indossavo e rimanendo con il corsetto e i mutandoni di lino bianchi al ginocchio.
Trovai sollievo nel lavarmi con quell’acqua gelata e frugai nella bisaccia scegliendo un abito da viaggio semplice color mattone che indossai velocemente.
Non mi abbandonai al sonno della morte. Non potevo rischiare che il fattore rientrando mi trovasse priva di vita perciò mi sedetti accanto al cavallo e aspettai che le lunghe ore di sole passassero una dopo l’altra.

Quando la corta giornata di gennaio si avviò al tramonto, il mio corpo percepì l’arrivo della sera e io ebbi la sicurezza di poter uscire perciò preparai le poche cose che avevo deciso di portare con me e uscii dalla stalla.
Raggiunsi la famiglia che si stava riunendo per il pasto serale e li avvisai della mia partenza.
Barattai i miei abiti e qualche effetto personale con un paio di calzoni di pelle di uno dei loro figli più grandi e un paio di camicie di tela, grezza ma resistente.
- Ho lasciato il cavallo nella stalla – dissi accomiatandomi. – Vi prego di averne cura, è un buon animale. Non mi servirà dove sto andando. –
Poi, sotto gli sguardi stupiti dell’intera famiglia, mi avviai al crepuscolo verso le montagne innevate che mi promettevano una discreta morte appartata e non mi voltai nemmeno una volta indietro.
Quando qualche ora dopo fui protetta dall’oscurità e dalla folta vegetazione, presi a correre come il vento e mi fermai solo quando fui alla base del più alto monte della catena che avevo adocchiato per tutto il percorso.
Mi tolsi l’abito di foggia elegante seppur semplice e mi infilai i pantaloni: la neve era troppo alta perché potessi proseguire con le gonne che mi avrebbero impedito di superare i grossi cumuli invernali.
Gli stivali che calzavo mi assicuravano una presa solida sul terreno scivoloso ma la spessa camicia di tela non impediva al vento gelido che soffiava da nord di penetrare fino alla pelle e serrare il mio corpo con dita ghiacciate.
Ciò nonostante non mi fermai. Proseguii risalendo il crinale, arrampicandomi per i ritti pendii con una rabbia e una determinazione che nasceva dalla consapevolezza che, arrivata in cima, l’avrei fatta finita.
Tanto non gli sarebbe fregato un cazzo. Anche se fosse venuto a saperlo. Bastardo. Grandissimo bastardo.
Imprecavo e arrancavo, facendomi largo tra gli arbusti bassi e spinosi della vegetazione invernale, addentrandomi nel fitto di boschi sempre più selvaggi e isolati man mano che abbandonavo gli scarsi centri abitati costituiti da sparuti gruppi di poche case qua e là sul versante.
Mentre la notte volgeva al termine, arrivai in cima alla vetta più alta proprio dove mi ero prefissata di arrivare.
Oltre non vi era nulla: solo roccia e ghiaccio lucido a rimandare il volto scuro del cielo come in uno specchio buio.
Là sì che entro poche ore il sole avrebbe illuminato il giorno.
Là, sicuramente, i suoi raggi mi avrebbero avvolto in pochi istanti in un abbraccio di fuoco e morte.
Dovevo solo trovare il coraggio di farlo.
Voltai le spalle alla sommità e guardai a valle il bosco sottostante ai margini del quale io avrei atteso il momento giusto per arrampicarmi in vetta e sparire per sempre.
Inalai a pieni polmoni i profumi della notte.
L’aroma intenso della resina dei pini e quello più dolce del sorbo e dei faggeti.
Il profumo del sottobosco e del legno bagnato. Forse un fuoco da campo molto lontano.
Tutto era silenzio e pace intorno a me.
La neve ferma e candida sul suolo e sui rami pesanti del suo peso.
Pensai fosse un peccato non poter condividere quello spettacolo meraviglioso con qualcuno. Chiunque fosse.
Perché lui non mi aveva voluta?
Perché era così insensibile a qualsiasi stimolo estraneo a se stesso?
Scorreva lo stesso ghiaccio che vedevo ora li davanti a me nelle sue vene?
- Che grandissimo pezzo … - lasciai la frase a metà perché fui improvvisamente attratta da un movimento repentino a qualche centinaio di metri più a valle.
Il bosco si era animato, le fronde ondeggiavano scaricando la neve al passaggio di qualcosa di vivo.
Il battito di animali raggiunse il mio corpo. Il loro cuore pulsante e scosso da spasmi di paura.
Sentii distintamente ringhiare e grugnire e non so perché ma scattai verso quei suoni. Forse perché ero un predatore e quella era la mia natura, o perché non mi nutrivo da giorni e istintivamente sentivo l’impulso di cacciare oppure semplicemente perché anche la presenza di un animale in quella solitudine totale mi sembrava un‘alternativa allettante.
Mi lanciai in una corsa frenetica addentrandomi nuovamente nel bosco e dopo pochi secondi ebbi di fronte a me l’incontro notturno di due diversi abitanti del luogo: un enorme cinghiale e un piccolo lupo grigio.
Per qualche istante tutti e tre restammo immobili, come paralizzati.
Il lupo ringhiava piano nella direzione del cinghiale e lanciava occhiate furtive dietro di sé, forse valutando le possibilità di fuga. L’altro lo fissava senza paura annusando l’aria, il grosso grifo fremente.
Io scrutavo entrambi non sapendo nemmeno bene perché fossi lì.
Poi, improvvisamente, qualcosa li fece scattare: il cinghiale fece un paio di passi indecisi nella direzione del lupo che prima ringhiò più forte e poi decise di attaccare.
Appena il cinghiale lo vide lanciasi contro di lui abbassò il grosso muso e lo caricò con tutto il suo peso.
Io partii insieme a loro. Il lupo era un decimo della mole rispetto all’avversario e non mi sembrava uno scontro equo il loro ma, prima che io riuscissi a fermare quel treno imbizzarrito, i due animali si scontrarono nella corsa e in pochi secondi il gigante ebbe la meglio.
Inforcò il piccolo lupo al fianco con le grosse zanne curve e lo sbalzò contro un grosso albero a qualche metro di distanza.
L’animale si schiantò contro il tronco uggiolando di dolore e ricadde a terra senza più muoversi.
Non contento, il cinghiale si avvicinò all’albero e si accanì sul corpo senza vita facendolo ruzzolare con le zanne.
- Fermo – gli gridai a quel punto. Va bene difendersi ma non infierire.
La grossa testa si girò verso di me e focalizzò lo sguardo sulla nuova minaccia.
I piccoli occhi parvero soppesare la mia stazza e trovarla di poco conto.
Si girò dimenticandosi il lupo e scattò nella mia direzione pronto ad attaccarmi.
Forse pensava che sarei scappata. E avrei potuto farlo in realtà; non mi avrebbe mai raggiunto.
O avrei potuto semplicemente saltare verso l’alto per atterrare a qualche metro sopra di lui, al sicuro tra i rami di un faggio.
Ma qualcosa nel suo atteggiamento arrogante mi mandò in bestia. Lo aspettai immobile finché non mi fu addosso e, prima che riuscisse a azzannarmi, lo afferrai per la spessa groppa e lo feci volare a qualche metro da me contro le rocce regalandogli la stessa esperienza che lui aveva inflitto poco prima al piccolo lupo.
Nella caduta si ruppe una zampa e, dopo essersi ripreso dalla botta, cercò invano di rialzarsi senza riuscirci.
L’osso,rompendosi, aveva lacerato i tessuti e una profonda ferita gli squarciava un’anteriore: il sangue prese a colare lucido e rubino nell’oscurità.
Il suo profumo mi colpì le narici violentemente.
Non mi nutrivo da giorni. “No, non un’animale” intimai nella mente a me stessa.
Ma il mio corpo non ascoltava. Mi incamminai come in trance verso il cinghiale che ormai in preda al panico roteava i piccoli occhi consapevole della sua imminente fine.
Lo raggiunsi, lo guardai dall’alto qualche secondo e poi calai su di lui con le zanne esposte, abbeverandomi alla sua enorme gola e squarciando la spessa cotenna del suo collo.
Dopo un tempo che non fui in grado di definire, mi ritrovai seduta contro le rocce accanto al suo cadavere.
Ero coperta di sangue come se l’avessi macellato: i capelli, i vestiti, le mani, tutto era ricoperto del rosso fluido viscoso che si stava asciugando velocemente su di me.
Come mi ero ridotta? Se mia sorella Igridt mi avesse visto in quello stato … gli occhi mi si riempirono di lacrime. Quanto diavolo mancava all’arrivo del giorno?
Incominciai a pulirmi il viso con le maniche della camicia come in preda alla follia, con gesti rabbiosi, sfregandomi il volto e le mani con il tessuto rigido come se dovessi scorticare la pelle. Mi sentivo una reietta, una sciagurata randagia e infelice mentre le lacrime scendevano senza sosta.
Presi della neve e la sfregai tra le dita per sciacquare la prova di quanto ero caduta in basso, poi improvvisamente sentii un rumore che mi riportò alla realtà.
Un lieve uggiolare arrivava dal corpo inerme del lupo. Flebile, il lamento si sentiva appena ma attirò la mia attenzione.
Mi alzai e mi avviai verso quel richiamo asciugandomi il naso sulla manica della camicia ormai irriconoscibile e sistemando i capelli scarmigliati alla meglio dietro le orecchie.
Forse il lupo era in agonia. Forse avrei potuto alleviare le sue pene dandogli una fine veloce senza lasciarlo soffrire per ore.
Quando raggiunsi il suo corpo mi accorsi che era già morto ma capii anche che non era un lupo: era una femmina e due piccoli cuccioli si stavano affannando accanto al suo cadavere, cercando di svegliarla da un sonno dal quale non si sarebbe mai più ridestata.
I due batuffoli di pelo ancora malfermi sulle zampette ossute tormentavano il muso della loro mamma leccandolo e mordicchiandolo nel tentativo di farla reagire.
Le piccole code dritte li rendevano buffi e la foga con cui stavano richiamando la loro madre li fece inciampare e rotolare entrambi in due direzioni diverse.
Poveri piccoli innocenti: sarebbero morti da lì a breve di fame o azzannati da qualche predatore.
Imperterriti, ripresero i loro tentativi disperati guaendo sempre più forte e tornando ad arrampicarsi sul corpo della lupa in cerca di conforto.
Io non potevo farci nulla. Da lì a qualche ora sarei morta pure io perciò tanto valeva lasciarli alle volpi, o ai gufi. Meglio che lasciarli morire di fame. No, forse avrei dovuto ucciderli e basta.
Una veloce torsione del collo e sarebbero morti in pochi secondi.
Ne afferrai uno per la collottola lasciandolo dondolare di fronte al mio viso: prese a ringhiarmi minacciosamente esponendo i dentini appuntiti e arricciando il nasino nero.
Non riuscii a non sorridere: quanto era carino. Il pelo grigio scuro più lungo rispetto al sottopelo rossiccio spiccava ritto tutto intorno al suo corpicino come un’aureola e gli conferiva un aspetto soffice e gonfio per quanto non pesasse più di qualche etto.
Si dimenava, tentando di liberarsi, al punto che rischiò di scivolarmi dalla presa e quindi lo agguantai per il torace per evitare che cadesse. Per tutta risposta appena ne ebbe modo affondò i dentini aguzzi nella mia mano fino alle gengive.
- Piccolo demonio peloso! – imprecai scollandolo per liberarmi la mano.
Lui abbandonò quasi subito la mia carne ma solo per iniziare a leccare le dita con ingordigia.
Erano ancora sporche dei residui del mio pasto: il sangue rappreso non era stato del tutto lavato via dalla neve e dai miei tentativi e lui ne stava approfittando.
Doveva avere una gran fame.
Non credo che mamma lupa pensasse al cinghiale per cena quella sera. Forse più probabilmente si era vista costretta ad attaccarlo per difendere i suoi piccolini e le era costato la vita.
Raccolsi anche l’altro cucciolo che si stava allontanando tutto solo alla ricerca del fratellino e mi accucciai di nuovo sul terreno guardando i due fagottini assatanati gettarsi sulle mie mani attirati dall’odore del sangue.
Il secondo lupacchiotto, più mansueto, prese a succhiarmi un dito cercando probabilmente il latte materno.
Capii che non sarei più riuscita a ucciderli nel momento in cui alzò i suoi occhietti curiosi su di me e mi conquistò il cuore.
Ok. Bisognava trovare il modo di nutrirli. Cosa mangiano due cuccioli di lupo di poche settimane a parte il latte che non potevo procurargli? Il sangue, rispose la mia mente osservandoli affannarsi sulle mie mani.
E di sangue poco più lontano ce n’era ancora molto.
Tornai accanto al cinghiale. Estrassi dalla cintura un grosso coltello e praticai un largo taglio sul posteriore dell’animale. Asportai una bella porzione di carne privandola della pelliccia e la tagliai a pezzetti che lanciai ai cuccioli poco distanti da me.
Quello che senza dubbio sembrava essere il più dominante si avventò sul primo pezzo e divorò la carne ringhiando per tutta la durata del pasto. Il secondo più remissivo mangiò con meno foga e si lasciò rubare un paio di pezzi senza lamentarsi.
Finito il di mangiare e con la pancia piena, si avvicinarono di nuovo, si appallottolarono accanto a me e si misero a dormire.
Io presi ad accarezzarli distrattamente, persa nei miei pensieri, ancora intenzionata ad arrampicarmi sul ghiacciaio al levar del sole.
Ma quando la luna sbiadì nell’azzurro sempre più chiaro sino a scomparire e il cielo aprì le braccia al giorno io ero ancora al riparo del faggeto di guardia ai due piccoli orfani.



LA NUOVA VITA

Alla fine non mi ero uccisa.
Avevo raccolto i due cuccioli e li avevo sistemati nella bisaccia.
Avevo atteso il calar del sole per ore dopo aver tanto anelato il suo sorgere e deciso di aspettare a lasciarmi ardere dai suoi raggi fino allo svezzamento dei due piccoletti.
Bruciare oggi o bruciare domani non avrebbe fatto la differenza.
Camminavo verso est cercando comunque di mettere tutta la distanza possibile tra me e Roma senza abbandonare il rifugio sicuro dei boschi.
La luna era piena quella notte e illuminava il bosco di chiarori spettrali mentre procedevo senza sapere dove andare.
Non riposavo da giorni e la stanchezza rallentava anche gli immortali.
L’energia che il sangue del cinghiale aveva infuso nel mio corpo mi permetteva di camminare ma non di correre perciò avanzavo lentamente concedendomi delle soste.
Quando mi decisi a cercare una grotta dove cedere al sonno della morte mancavano ancora parecchie ore all’alba ma non mi importava.
Avevo riempito una bisaccia di carne per i cuccioli e nell’altra avevo gli unici vestiti che mi ero portata dietro. Tenevo i demonietti in braccio e più passava il tempo più mi sembravano diventare pesanti.
Arrivai ad un punto del bosco in cui un folto e piuttosto basso fogliame lasciava intuire al di là una radura.
Mi feci largo tra i fitti cespugli e sbucai in cima ad un piccolo avvallamento: di fronte a me una fila di alti cipressi sembrava nascondere una costruzione decadente.
Era un piccolo rudere, diroccato e parzialmente crollato, ma in quel momento mi sembrò una reggia.
Entrando mi accorsi subito che era abbandonato da tempo ma gli abitanti precedenti avevano lasciato qualche oggetto di uso comune e il camino sembrava ancora utilizzabile.
Stesi il mantello accanto al focolare spento e mi ci lasciai cadere sopra, poi chiusi gli occhi e smisi di respirare.
Fischiai forte per richiamare i lupi che accorsero festosi affollandosi intorno a me felici del mio ritorno.
Erano sette in tutto e i tre più giovani stavano ai margini esterni aspettando pazienti che i loro genitori si prendessero la giusta dose di attenzioni dal capobranco prima di loro.
Erano passati più di cinquant’anni dalla notte in cui avevo trovato il rudere diroccato e i loro antenati, che avevano cambiato il corso degli eventi obbligandomi a rinunciare al suicidio, erano morti e sepolti da tempo.
Avevano però dato origine al mio nuovo stile di vita: vivevo nei boschi insieme a loro, cacciavo insieme a loro e dormivo insieme a loro perché facevo parte del branco ed ero il loro alfa.
Avevo ristrutturato il casolare abbandonato con buoni risultati, rendendolo abitabile, e avevo trovato in quella vita solitaria e semplice una serenità che non avrei mai creduto possibile.
La nostra quotidianità era semplice, fatta di lunghe corse notturne nei boschi e cacce in cui il branco agiva secondo uno schema preciso dettato da norme di obbedienza e intesa perfetta: loro non disobbedivano mai; io li ricompensavo sempre e, dopo aver dissanguato con calma le nostre prede, permettevo loro di dividersi la carcassa.
Cinque decenni erano trascorsi senza che quasi me ne accorgessi. Di notte cacciavo, raccoglievo le mie erbe e giocavo con i miei lupi. Di giorno passavo il tempo a preparare i miei rimedi e a selezionare ciò che avevo raccolto protetta dalle spesse mura della mia dimora.
Anche quella sera ero uscita dalla baita appena dopo il tramonto per cercare erbe e radici e ora ero pronta ad accompagnare i miei cuccioli in una lunga corsa nei boschi in cerca di un bel cinghiale per cena.
- Zeus, Athena, scansatevi – intimai al maschio e alla femmina dominanti.
- Eros, vieni dalla mamma – chiamai il più dolce e remissivo affinché si avvicinasse e presi a grattarlo vigorosamente sul groppone.
Uggiolavano tutti un po’ gelosi l’uno dell’altro e impazienti di partire per la caccia serale.
Lasciai cadere la piccola gerla in cui avevo riposto i miei tesori e mi incamminai verso i cipressi che proteggevano la nostra dimora per inoltrarmi nel fitto del bosco.
Camminando osservai i miei stivali consumati sino alla tomaia e pensai che da lì a poco mi sarei dovuta decidere a fare un salto nella civiltà per procurarmi il necessario: ogni cinque o sei anni scendevo a valle, ogni volta in una direzione diversa, per fare scorta di ciò che non potevo fabbricarmi da sola e lo barattavo con unguenti e rimedi che preparavo alla baita. Sono una guaritrice da più di cinquecento anni e l’esperienza non mi manca.
Mentre correvo a perdifiato insieme ai lupi, feci mentalmente l’elenco di quello che avrei dovuto procurarmi: un paio di stivali, un coltello per scuoiare, un paiolo nuovo per bollire e sterilizzare … improvvisi rumori lontani di colpi d’arma da fuco mi bloccarono arrestando la mia corsa e quella dei lupi.
Non era un cacciatore solitario spintosi troppo a nord, quelli erano più uomini con più fucili.
Annusai l’aria per cogliere la scia di qualcuno ma erano troppo distanti.
I colpi continuarono a rimbombare in lontananza ancora per un po’, poi cessarono definitivamente.
Chissà perché decisi di scendere a valle.
Non ero più concentrata sulla caccia, volevo andare a vedere gli umani da vicino e scoprire cosa stavano combinando. Non ne vedevo da tanto tempo ed ero curiosa.
Balzai nuovamente avanti e i lupi ulularono eccitati per il rinnovato vigore della corsa prima di lanciarsi a seguirmi.
Non passò molto tempo che captai una scia: umani, più d’uno. Fumo, polvere da sparo. Ma sopra ogni cosa, come un aroma che sovrastava qualsiasi altro, prevaleva il profumo intenso e avvolgente del sangue: sangue umano.
Come una calamita mi attirò guidandomi tra il fitto fogliame, oltre radure e colline, tra faggeti e tratti rocciosi fino a quando non sentii il suo richiamo vicino, dannatamente vicino al punto che sentii le zanne esplodere tra le gengive.
Respirai affannosamente per riprendere il controllo. Non vedevo umani davanti a me ma il mio olfatto non mentiva perché camminando nella direzione che mi suggeriva avvistai un corpo steso a terra in mezzo alle foglie cadute del sottobosco.
Più mi avvicinavo più ero certa fosse ancora vivo: il cuore, seppur con flebile ritmo, batteva ancora pompando il prezioso fluido rosso fuori dal suo corpo, sulla fredda terra del bosco.
Lo raggiunsi e intimai ai lupi di rimanere indietro lontani dal corpo e da tutto quel sangue che li richiamava quasi quanto richiamava me.
Mi chinai su quella figura immobile e il medico dentro di me prese il sopravvento scacciando il vampiro che si fece piccolo e quieto.
Rivoltai l’uomo, perché di un maschio si trattava, e mi accorsi che portava una divisa militare: il suo fucile giaceva abbandonato accanto al suo corpo e attorno ai fianchi portava una cintura porta pallottole ancora fornita di munizioni.
I corti e ricci capelli castano chiaro erano schiariti dal sole, sbiaditi sulle punte sino ad un biondo luminoso.
Il viso era regolare, con grosse labbra carnose e un accenno di barba sulle guance, il naso dritto sul profilo e folte sopracciglia chiare aggrottate sugli occhi chiusi.
Era enorme, vicino ai due metri di altezza, e massiccio nonostante la magrezza che intravedevo sul viso.
Tastai le braccia e non trovai ferite perciò gli aprii la giacca scoprendo la camicia inzuppata di sangue e almeno cinque fori di arma da fuoco sul torace in diversi punti vitali.
Continuai l’ispezione e trovai una frattura alla gamba destra sotto al ginocchio, probabilmente tibia e perone, e anche alcuni fori di pallottola nella coscia sinistra.
Quando cercai di ricomporla il soldato si mosse e si lamentò nell’incoscienza gemendo forte.
Tornai a scrutarlo in viso e in quel momento lui aprì gli occhi rivelando le iridi più azzurre che avessi mai visto in tutta la mia lunga vita.
Non mi vedeva probabilmente, semi- incosciente o febbricitante non avrei saputo dirlo.
Sarebbe morto entro breve e se non l’avessi tolto da lì sarebbe morto per terra e al freddo.
Mi voltai a guardare i lupi che aspettavano un mio cenno per attaccare, frementi, ai bordi di un cerchio virtuale che si erano creati come limite invalicabile in mancanza del mio segnale.
- No pelosi. Questo non è cibo per voi. Forse morirà comunque … ma se anche così fosse, allora lo seppellirò. -
Guardai nuovamente il bel volto del ragazzo privo di sensi e pensai che dovesse avere circa una ventina d’anni: troppo giovane per morire.
Raccolsi il suo fucile, me lo caricai sulle spalle e, fischiando ai lupi, mi avviai per far ritorno a casa con un bottino molto diverso da quello che mi ero prefissata di trovare quella notte.

Durante le lunghe ore che seguirono fui certa che l’umano sarebbe morto.
Fu sul punto di crepare davvero almeno una decina di volte ma ogni volta quel ragazzone biondo e alto superava la crisi e sopravviveva.
Si agitava continuamente nel mio letto, gemendo e lamentandosi senza mai dire una parola. I piedi e parte dei polpacci debordavano dal materasso perché era troppo lungo per starci disteso completamente.
Un paio di volte aveva tentato di alzarsi e io ero stata costretta a trattenerlo disteso poiché non sarebbe riuscito a reggersi anche se fosse arrivato a mettersi in piedi.
Nella sua testa pensieri sconnessi e senza senso si affollavano aggrovigliati come rovi e, in tutto quel casino, avevo solo capito che odiava i tedeschi e la guerra che avevano portato.
C’era una guerra?
In quel momento si agitò in una nuova ondata di panico o delirio o rabbia o comunque si chiamasse quella forza che lo spingeva a resistere e restare vivo.
Mi avvicinai al letto e lo mantenni disteso bloccandogli le braccia, entrando nella sua mente.
“Devo alzarmi. Devo alzarmi e andare subito via da qui altrimenti morirò.
Dove sono quei bastardi? Vi ammazzo tutti. Tutti vi ammazzo se non ve ne andate dalla nostra terra!
Dove sono finiti i miei compagni? Non c’è nessuno .. è buio e non c’è più nessuno.”

Nella sua mente le parole contenevano una tale disperazione che provai una pena infinita per lui e presi ad accarezzargli i riccioli e a sussurrargli parole di conforto sperando di calmarlo.
Dio quanto puzzava però. L’odore pungente della paura e quello ancora più acre della morte che si avvicinava si levavano da lui a ondate che avrebbero raggiunto l’olfatto anche di un umano. Per il mio erano quasi insostenibili.
Presi un grosso catino e iniziai a spogliarlo completamente levandogli tutti i vestiti e rimuovendo gli impiastri che avevo applicato alle ferite.
Non avevano un bell’aspetto ma non sembravano nemmeno in suppurazione.
Nudo sul mio letto, l’umano aprì gli occhi e mise a fuoco il mio viso chino su di lui mentre con efficienza gli lavavo il corpo passando un panno fresco sulla sua pelle febbricitante e risciacquandolo per poi ricominciare.
“Sono morto. Sono morto e in paradiso gli angeli ti fanno il bagno prima di farti entrare.”
Il suo pensiero, così dolce e innocente mi fece sorridere mentre continuavo a vagare sulle sue membra con movimenti lenti e rilassanti.
La sua mente si spense e tornò solo il silenzio.
Finii di lavarlo e applicai un unguento sulle ferite. Fasciai il torace e steccai la gamba poi, mentre lo guardavo riposare, aspettai che il tramonto mi permettesse di uscire.
Qualche ora dopo tornai dalla caccia con un paio di lepri e preparai per la prima volta da centinaia di anni del cibo umano.
Lo stufato cuoceva lentamente nel paiolo sopra il camino quando sentii che era finalmente sveglio.
Smisi di mescolarlo e mi voltai a guardare il mio ospite.
I suoi luminosi occhi azzurri mi guardavano solleciti ora ma continuava a non parlare.
Scrutarono poi attentamente tutto l’ambiente intorno: la porta d’ingresso, l’unico tavolo in fondo alla stanza, i pochi e semplici mobili che l’arredavano. Il camino accanto al quale io stavo cucinando e l’unico letto che lui stesso occupava.
- Ciao. Sei sveglio finalmente – gli dissi guardandolo.
Non rispose ma io ero certa che capisse quello che gli dicevo perciò indagai nella sua testa.
“Mi sta esplodendo la vescica.”
Mi avvicinai a lui con un secchio e glielo porsi ma lui sembrò non capire.
- Non puoi alzarti ancora per pisciare. Devi farla qui dentro – restai a guardarlo per essere certa che mi avesse sentito e mi accorsi che incredibilmente era arrossito.
- Beh, che fai? Ti vergogni? –
“Non sono morto. Lei è reale. Sono nudo e sono in un letto che non è il mio: certo che mi vergogno.”
- Allora? – chiesi spazientita battendo il tempo con il piede accanto al letto – Ti decidi o no? Lo stufato si brucia e qui non c’è la servitù, ci sono solo io, quindi spicciati – conclusi brusca.
Prese il secchio ma rimase ancora immobile ad osservarmi un po’ allibito senza liberarsi.
- Senti, ma che problema hai? Non preoccuparti per me, ne ho visti parecchi credimi, non mi spavento. -
Divenne bordeaux e alzò di scatto lo sguardo su di me mentre i suoi occhioni azzurri si dilatavano per lo sconcerto.
- Sono un medico soldato, non una puttana - dichiarai incrociando le braccia offesa.
La sua espressione non poteva essere più comica: un misto di confusione, vergogna e costernazione.
- Hai capito? – per un secondo pensai che fosse un po’ tardo, poi lo vidi annuire e ebbi la sensazione che il suo silenzio non fosse una scelta.
“Non posso risponderti. E non posso sentire quello che dici se non ti guardo la bocca. E quando capirai che non posso parlare smetterai di trattarmi come una persona normale perché mi vedrai diverso.”
Il suo pensiero mi era giunto triste e rassegnato.
Era sordomuto e non aveva detto una parola perché non poteva parlare.
Mi fece una tenerezza infinita perciò mi sedetti accanto a lui sul letto e gli accarezzai il viso.
- Non devi darti pena soldato. Anche io sono una persona diversa. Se non puoi parlare ci intenderemo comunque, ok? Ora fai quello che devi fare, io esco a prendere della legna per il camino. Quando torno cercherai di mangiare va bene? – gli dissi con dolcezza. Poi mi alzai e uscii per dargli il tempo di provvedere alle sue necessità.
Quando rientrai poco dopo con una bracciata di legna per il fuoco era di nuovo steso ma perfettamente vigile e sembrava sentirsi meglio.
Recuperai il secchio e lo portai fuori controllando che l’urina non presentasse sangue ma senza farmi accorgere per non metterlo nuovamente a disagio.
- Dopo che avrai mangiato dovrò controllare le ferite – dissi rientrando e accertandomi che mi vedesse il viso.
Annuì e cercò di mettersi seduto ma gemette nello sforzo.
Io gli corsi accanto e gli sistemai due cuscini dietro la schiena, poi presi uno sgabello e mi sedetti accanto al letto con una ciotola di brodo e poca carne per lui.
Si lasciò imboccare senza protestare e io approfittai per osservarlo: il colore era tornato soffuso sul suo viso e gli conferiva un aspetto più salubre. Forse dopotutto ce l’avrebbe fatta. I capelli gli incorniciavano gli zigomi alti e maschi e le labbra si aprivano per accettare il mio cucchiaio scoprendo a tratti denti bianchi e sani.
- Come ti chiami? – domandai tra un boccone e l’altro.
Lui si agitò nel letto e mi guardò di traverso di nuovo a disagio.
- Sai scrivere? – chiesi. Ma lui scosse il capo.
- Allora pensalo – gli sussurrai senza guardarlo negli occhi – Pensa il tuo nome e io lo saprò. –
Mi vergognai di poterlo fare quasi quanto lui si vergognava di non poter parlare. Incredibilmente temevo che scoprire quella mia capacità l’avrebbe portato a trovarmi diversa e che quindi avrebbe smesso di trattarmi da persona normale. E mi piaceva averlo lì. Mi piaceva, dopo cinquant’anni passati nell’isolamento totale, avere nuovamente qualcuno che non fosse un animale con il quale condividere qualcosa.
“Amedeo” pensò lui senza esitare.
- Amedeo – dissi io alzando lo sguardo. I suoi limpidi occhi azzurri mi fissavano sereni e per nulla spaventati.
“Tu leggi quello che io penso nella mente?”
- Te l’ho detto che anche io sono una persona diversa,no? Puoi accettarlo?-
Lui annuì convinto, affascinato dal poter comunicare in un modo nuovo.
Io sorrisi e finii di dargli il pasto senza dire altro, poi mi occupai delle sue ferite sperando, per la prima volta in vita mia, di essere brava davvero almeno quanto bastava a salvare quel biondo soldato.
I giorni erano passati ed erano diventati settimane. Amedeo migliorava costantemente: le ferite si erano rimarginate e aveva cominciato a muoversi per brevi tratti nella stanza.
La gamba era ancora lontana dall’essere a posto ma io ero fiduciosa nel pensare che non sarebbe restato zoppo per sempre. Si era costruito due stampelle e si aiutava con quelle quando decideva di uscire per le sue necessità.
Era un uomo semplice e dall’animo trasparente come l’acqua cristallina del torrente che scorreva accanto alla baita in cui si ostinava a fare il bagno da solo. Cocciuto quanto un mulo e con un orgoglio che rasentava l’idiozia.
Non mi permetteva di aiutarlo nemmeno quando l’uso delle stampelle lo affaticava al punto che il respiro diventava affannoso e si copriva di sudore, ma io lo rispettavo e stavo a guardare i suoi quotidiani progressi.
Avevo iniziato ad insegnargli a leggere e scrivere e questo riempiva parecchio del nostro tempo insieme.
Non mi chiese mai come facessi a leggergli nella mente. Lui pensava in silenzio, io rispondevo ad alta voce in un dialogo che sarebbe sembrato assurdo a chiunque avesse visto la nostra strana conversazione ma che era invece perfetto per noi.
Un giorno , mentre mi osservava preparare un impiastro, mi raccontò della notte in cui io lo trovai in fin di vita.
Aveva combattuto contro i tedeschi in un’imboscata organizzata per far fuggire dei prigionieri destinati al muro. Faceva parte di un gruppo di partigiani che si facevano chiamare “La Brigata Majella” dal nome della loro montagna sacra. Uomini coraggiosi che si erano schierati in difesa della loro terra contro la reazione sanguinosa voluta da Hitler per ostacolare l’avanzata degli Alleati.
I tedeschi avevano schierato una dura linea difensiva che attraversava l’Italia da una costa all’altra e i paesi che avevano avuto la sfortuna di trovarsi sulla traiettoria erano stati duramente colpiti.
L’occupazione era stata violenta e crudele: gli abitanti erano stati sottoposti ad angherie e soprusi oppure costretti a lasciare le loro abitazioni. A volte semplicemente trucidati.
Amedeo e altre decine di volontari avevano formato un gruppo unito contro gli invasori e avevano opposto una indomita resistenza in favore degli Alleati attendendo il loro arrivo e la liberazione.
C’era la guerra. E io non lo sapevo! La cosa l’aveva sconvolto:lui sarebbe morto volentieri per il suo paese. L’onore e i suoi compagni erano tutto quello che possedeva.
Era rimasto orfano di padre a soli quattro anni, quando sua madre aveva saputo di essere una vedova della prima grande guerra, e poco dopo era morta anche lei di febbre malarica. Era cresciuto sui monti insieme al fratello maggiore di sua madre che l’aveva relegato nei boschi senza fargli quasi frequentare il resto della scarsa popolazione dei dintorni perché si vergognava della sua invalidità.
Tutti lo consideravano un tonto menomato e gli stavano alla larga evitando di vessarlo solo per paura della sua mole.
Ma Amedeo non era per nulla menomato: aveva una mente brillante e acuta. Era un abile falegname e un uomo di grande intelligenza.
La guerra e la disperazione l’avevano spinto a offrirsi volontario per difendere il suo paese e la libertà: aveva trovato una famiglia nella Brigata che lo apprezzava per il suo coraggio e per la sua energia. Anche se la sordità lo rendeva vulnerabile al nemico, la sua forza fisica e la sua vista acuta erano stati apprezzati e rispettati tra i figli della Majella.
Mi raccontava la sua vita steso sul prato all’imbrunire, mentre i lupi gironzolavano intorno a noi e io scrutavo il picco di bianco calcare al di là della baita, affascinata dall’ardore con il quale descriveva la sua terra con entusiasmo e sconfinato amore di Patria.
Presto fu in grado di camminare senza le stampelle e iniziò a fare piccole riparazioni e modifiche alla baita.
Incominciò anche a diventare insistente in merito al cibo.
Io non mangiavo mai con lui.
Per un po’ gli dissi che preferivo mangiare quando avevo fame e non a orari stabiliti; poi gli raccontai che per motivi religiosi non mi era consentito mangiare davanti ad altre persone … alla fine, una bella mattina di primavera, dovetti raccontargli la verità.
I giorni di freddo e gelo invernale se ne erano andati lasciando l’aria di fine marzo carica di profumi primaverili e frizzante del risveglio della natura.
Amedeo era rientrato dalla legnaia con un carico di legna per il fuoco e avanzava verso il camino trascinando appena la gamba offesa.
Gli avevo confezionato un paio di pantaloni con la pelle lavorata di un camoscio e il morbido indumento avvolgeva il suo corpo snello sottolineando il fisico asciutto e i fianchi stretti.
Portava la camicia solo di sera quando si sedeva a mangiare quello che gli avevo cucinato e in quel momento il suo largo petto era nascosto solo dal carico di legna che gonfiava nello sforzo i suoi bicipiti lucidi e appena scuriti dal sole.
Io stavo tagliando delle verdure per il suo pasto e il ritmo costante del coltello accompagnava le occhiate che gli lanciavo di sfuggita mentre non mi guardava.
Si era accucciato e stava sistemando con cura i ciocchi accanto al camino: la schiena arcuata e nuda si gonfiava sui dorsali ad ogni movimento, anche se non gli costava nessuno sforzo, e io ne ero affascinata come fosse uno spettacolo sbalorditivo. Erano solo muscoli alla fine!
Sbuffai innervosita e lui si voltò verso di me non perché avesse sentito il rumore ma perché anche lui come me mi cercava spesso con lo sguardo quando non lo osservavo e io me ne accorgevo sempre.
Si alzò e si avvicinò al tavolo dove io stavo lavorando e mi sfiorò leggermente un braccio: era il nostro segnale per parlare.
“Usciamo oggi. Smetti di lavorare. Fuori c’è un bel sole e possiamo stare un po’ sul prato insieme ai lupi”
- No. Sai che non esco di giorno – dissi scuotendo il capo perentoria.
“Perché?” chiese paziente. “Perché non vuoi mai uscire di giorno?”
Io non risposi.
“Hai paura che qualcuno ti veda? Non c’è nessuno qui Zelda … solo la montagna e noi due.”
Formulò il pensiero in un modo che mi fece muovere qualcosa nel bassoventre. Come se quelle parole nascondessero una profonda intimità che fino a quel momento avevo solo percepito ma non realizzato completamente.
- Non esco durante il girono Amedeo. Lo sai, è così e basta. –
Mi spostai verso l’acquaio e lui mi afferrò per un braccio.
“Dimmi il motivo ti prego. Se ti nascondi da qualcuno, se c’è qualcuno che ti minaccia … io lo faccio a pezzi!“
Che dolce. Pensava mi stessi nascondendo da qualcuno. Beh, forse l’avrei pensato anche io di una persona che viveva da anni come una reclusa in mezzo ai boschi a quasi un giorno di marcia dalla civiltà.
Lo guardai e il suo sguardo serio e preoccupato mi fece quasi sciogliere al punto da accontentarlo e seguirlo fuori per arrostire al sole.
Mi tratteneva ancora per il braccio e il suo viso era talmente vicino al mio che potevo contare le sfumature di azzurro delle sue iridi.
Quegli occhi così sinceri e diretti mi spingevano a dire la verità.
Abbassai lo sguardo per scansarli e fu un errore perché lo fissai sulle sue labbra. Grandi e carnose, erano appena imbronciate sulla mascella contratta al pensiero che io avessi paura di qualcuno.
Si accorse che le fissavo e il suo respiro cambiò. Il suo battito accelerò e una strana alchimia si levò tra noi come qualcosa di quasi tangibile.
Attrazione fisica. Ecco cos’era: io lo volevo e il suo corpo mi diceva che lui voleva me.
Quando stai senza toccare un'altra persona per più di cinquant’anni fai un po’ fatica a riconoscere i sintomi ma finalmente presi coscienza della verità: ero così dannatamente attratta da quell’uomo tranquillo e semplice al punto da soffrire quasi per il desiderio di lasciarmi andare e baciare quelle labbra.
Nel prendere coscienza della verità mi assalì il panico: l’immagine delle mie zanne esposte nella passione e il suo viso stravolto dall’orrore e dal disgusto riempirono la mia mente. Per uscire da quella situazione pericolosa l’unica cosa che mi venne da fare fu tirargli addosso un mestolo d’acqua fredda.
La sua espressione mutò improvvisamente da ardente a esterrefatta.
Talmente comica che scoppiai a ridere e fui lesta a scappare via. Lui rise a sua volta mostrando una fila di denti bianchissimi e due adorabili fossette sulle guance mentre si tergeva gli addominali e il petto con le mani e veniva lentamente verso di me.
Lo sguardo era tornato rovente e le intenzioni erano abbastanza chiare.
“Sei più veloce di me, è vero” pensò tra sé avanzando nella mia direzione “ma non puoi o non vuoi fuggire all’esterno e quindi, prima o poi ti acchiapperò”.
Per qualche minuto semplicemente ci studiammo, girando intorno al tavolo guardinghi, con movimenti lenti e continui.
Lui sorrideva da una parte e io sogghignavo dall’altra in quella danza circolare in cui aspettavamo silenziosi che l’altro facesse la sua mossa.
Poi, improvvisamente, Amedeo scattò allungandosi in avanti e mi agguantò per un polso.
Io riuscii a liberarmi con uno strattone e a scappare verso il letto, dall’altra parte della stanza, ma lui con una finta mi intercettò sul percorso e mi fece uno sgambetto facendomi precipitare a terra.
Prontamente mi afferrò tuffandosi insieme a me e atterrò sul pavimento al posto mio, proteggendomi dalla caduta col suo corpo.
Il colpo rimbombò nel suo petto contro il mio viso che vi era incollato sopra all’altezza del cuore.
Il battito forte e accelerato mi martellò nelle orecchie mentre alzavo il volto ad incontrare i suoi occhi.
Erano dolci e dilatati, non nascondevano nulla del desiderio che gli era montato dentro tanto quanto non lo nascondeva il suo corpo sotto il mio.
Si avvicinò lentamente per incontrare le mie labbra e io mi scostai allontanandomi un poco, restando ferma tra le sue braccia.
- Non posso – gli dissi triste scuotendo il capo.
“Perché?” chiese ansimando piano sotto di me.
- Non posso dirtelo. –
“Che significa -non posso dirtelo -?” chiese incredulo.
Si alzò a sedere e io a mia volta mi spostai inginocchiandomi di fronte a lui.
Gli presi il viso tra le mani e lo fissai intensamente perché avrei tanto voluto potere invece.
Poter di nuovo lasciarmi andare tra le braccia di un uomo, provare la condivisione di un altro corpo e lasciarmi possedere dal fuoco che vedevo in quei suoi occhi azzurri come laghi.
Ma se lui mi avesse visto trasformata dalla passione in un essere diverso, con le zanne esposte e le iridi contratte del vampiro che avrebbe risvegliato, sarebbe fuggito dalla baita senza nemmeno voltarsi indietro e non l’avrei più rivisto.
- Significa che non posso lasciarmi andare Amedeo, anche se lo vorrei tanto. –
Lui tolse le mie mani dal suo viso afferrandomi i polsi e aggrottò le sue folte sopracciglia chiare.
“ Tu menti” mi accusò risentito. “ Tu non mi vuoi perché sono menomato. Dillo! Tu non mi vuoi perché non sono normale” gridava la sua mente. “Ma io non sono meno uomo là sotto solo perché non posso parlare.”
I suoi occhi si erano riempiti di lacrime di rabbia e di dolore e lo sguardo aveva perso tutto il calore che irradiava pochi istanti prima.
- Non è questo Amedeo. Non devi nemmeno pensarlo … -
Si era rialzato con difficoltà e cercava in tutti i modi di impedire alle lacrime di traboccare a rigargli le guance deglutendo più volte in silenzio.
Lo seguii e lo abbracciai con l’intento di consolarlo ma lui mi afferrò per le braccia tornando a guardarmi con disperazione.
“ E allora cos’è Zelda?” mi chiese aggressivo “ Se davvero non è quello il motivo, qual è?”
- Se te lo dicessi non mi crederesti. –
Continuò a fissarmi inesorabile.
- Mi chiederai di mostrartelo e poi te ne pentirai. Scapperai lontano da me e io non voglio che accada. –
Mi appoggiai nuovamente al suo petto e compresi che era davvero così: avevo il terrore che se ne andasse. Non potevo pensare di stare senza di lui nemmeno un giorno.
“ Non scapperò Zelda, te lo prometto.”
Mi riabbracciò stringendomi forte a sé prima di tornare a guardarmi.
“Sono un figlio della Majella. Duro, come la roccia della montagna: puoi dirmi qualsiasi cosa mia Zelda. Non ti lascerei per nessun motivo al mondo perché non voglio tornare a sentirmi triste e solo come sono stato tutta la vita. Non c’è niente che non possiamo affrontare insieme se tu mi vuoi.”
- Tu non sai di cosa parli Amedeo. Scapperai lontano da me, terrorizzato e disgustato e …-
Ma non mi fece finire. Abbassò la bocca sulla mia e mi baciò con un trasporto simile alla disperazione chiedendo e prendendo tutto ciò che riusciva a raggiungere della mia anima immortale e io lo accontentai liberando quella parte di me che avevo relegato in un luogo buio e lontano per oltre cinquantanni.
La trasformazione fu immediata e inarrestabile appena l’eccitazione mi portò oltre la soglia.
Le zanne emersero dalle gengive e gli occhi mutarono, flettendo le iridi che divennero ellittiche.
La fame di sangue e di sesso mi infiammò il corpo portandomi a rispondergli senza esitazione e senza trattenermi.
Un lungo gemito mi nacque dal profondo e lui, avvertendo la mia foga, mi strinse ancora più forte tormentando le mie labbra senza riserve.
Quando lasciò la mia bocca si scostò da me quel tanto che gli serviva per guardarmi in viso ma io mantenni abbassate le palpebre per nascondere lo sguardo alieno e restai in silenzio a occhi chiusi.
“Dunque è vero, non mentivi … tu mi vuoi” si stupì a pensare. “ Tu mi vuoi veramente , e io ti prometto che non te ne pentirai, ti farò felice, lo giuro. Sono innamorato Zelda, e voglio passare il resto della mia vita con te. Qui, oppure ovunque tu vorrai andare … io sarò sempre al tuo fianco finché mi vorrai.”
- Tra meno di un minuto tu fuggirai lontano da me. Non mi vorrai vedere mai più e non mi ricorderai se non nei tuoi incubi peggiori – gli dissi affranta ad occhi chiusi.
“ Non vado da nessuna pa….”
Il pensiero si bloccò nella sua mente appena le mie ciglia si mossero alzando il sipario dai miei occhi.
Per essere del tutto chiara schiusi anche le labbra permettendo alle zanne superiori di spuntare appena ma rendendole inequivocabilmente visibili.
Amedeo registrò quanto stava vedendo e d’impulso si ritrasse arretrando per allontanarsi e andando a sbattere contro il tavolo che fermò la sua fuga istintiva.
“ Per la Santissima Madre di Gesù” afferrò dal tavolo il grosso coltello con il quale stavo tagliando le verdure solo pochi minuti prima e lo puntò nella mia direzione.
Sondai la sua mente ma, a parte l’invocazione religiosa, nel suo cervello i pensieri si affastellavano senza riuscire a formare una frase coerente che avesse un senso.
Ansimava adesso e molto, non per l’eccitazione ma per la paura. Il cuore gli galoppava furioso nel petto e la mano che brandiva l’arma contro di me tremava visibilmente. Gli occhi erano dilatati e lo sguardo spaventato, proprio come avevo previsto.
Sapevo che sarebbe andata così e non avrei dovuto restarne tanto turbata. Ma per un momento avevo creduto che sarebbe stato possibile. Avevo sperato che mi accettasse per come ero.
- Non ti farò del male Amedeo. Non dovrai usare quel coltello contro di me: puoi andare – gli dissi tristemente indicando la porta.
Un dolore sordo e profondo prese il posto della frenesia di poco prima e fece crollare la mia libido e tutte le mie speranze.
Sentii le mie pupille espandersi e le iridi gonfiarsi tornando ad essere semplicemente occhi umani mentre le zanne piano si ritraevano scomparendo tra le mie labbra.
Tornai a guardarlo e lui vide soltanto la ragazza con la quale aveva vissuto negli ultimi due mesi. La ragazza che lo aveva curato e gli stava insegnando a leggere. Che amava i lupi e le lunghe passeggiate nei boschi .
Fece un passo verso di me e il coltello gli cadde di mano finendo a terra ai suoi piedi con un sordo tonfo che risuonò nel silenzio.
“Chi sei?” chiese facendo un altro passo verso di me.
- Zelda. –
“ Cosa sei?” chiese ancora.
Nella mente il suo pensiero era tornato ad essere controllato e pacato. Il coraggio e la determinazione perlomeno a capire la situazione avevano preso il posto della paura e della confusione di poco prima.
- Non me lo fare dire ti prego – lo implorai amaramente. – Ora sei forte abbastanza, prendi quello che vuoi e vai pure per la tua strada. Posso capire che quanto hai detto poco fa non abbia nessun valore adesso. Non ti biasimo per questo e non mi aspettavo che fosse diverso.
“Non mangi mai. Non esci mai di giorno. Sparisci per ore di notte e quando rincasi non vai mai a dormire. I tuoi occhi … i tuoi denti … ho visto i canini tra le tue labbra … sei un vampiro.”
Io chinai il capo e mi preparai a vedere nuovamente il disgusto e il terrore nel suo sguardo – E’ così – dissi soltanto a conferma delle sue conclusioni.
Ma quando alzai nuovamente la testa lui non era scappato. Non aveva lo sguardo atterrito e disgustato. Era di fronte a me e mi stava osservando come se cercasse delle conferme a quanto aveva appena elaborato.
Torreggiava sopra di me con i suoi quasi due metri di muscoli e carne, gli occhi azzurri e luminosi di nuovo tanto vicino ai miei.
“Tu puoi controllarlo” terminò fissando i miei occhi tornati normali.
- Posso dominarlo è vero. Non sempre, non quando le emozioni mi sovrastano. Soprattutto non quando perdo il controllo … -
“Non vuoi uccidermi” concluse tranquillo.
- Amedeo, io ti ho salvato là fuori nei boschi e ti ho portato in spalla per chilometri prima di arrivare alla baita. Ho sfruttato tutte le conoscenze mediche che avevo per guarirti e ho pregato perché tu sopravvivessi. Sono innamorata di te e non potrei ucciderti nemmeno se tu fossi l’unica risorsa di sangue rimasta al mondo, quando invece la montagna è ricca di cinghiali e camosci che soddisfano abbondantemente la mia sete. -
“Cosa hai detto?” chiese aggrappandosi alle mie braccia.
- Ho detto che mi cibo di cinghiali e camosci – risposi titubante.
“ Prima di quello. Hai detto di essere innamorata. Di me.”
La sua faccia estasiata per quella prospettiva sembrava aver dimenticato ogni altra cosa. Le zanne, il sangue e tutto il resto.
- Io sono quello che vedi ora – gli dissi risoluta – ma sono anche quello che hai visto prima. E sarò così ogni volta che tu mi toccherai e mi bacerai, e mi farai bruciare dentro di un fuoco tale per cui io non potrò nasconderlo. Se non puoi accettarlo, se non puoi stare con una persona come me, io non ti biasimo ma vattene subito, adesso, perché dopo mi spezzeresti il cuore. –
Prima che riuscissi a tornare a vedere attraverso il velo di lacrime che mi aveva offuscato la vista, lui mi aveva preso nuovamente tra le braccia e mi stava di nuovo baciando con rinnovata intensità.
Le sue mani presero a scorrermi addosso accarezzando la schiena, le spalle e fermandosi sui miei glutei possessivamente.
Mi alzò sul suo corpo e si staccò da me per guardarmi sorridendo.
I miei occhi erano tornati ad incendiarsi per lui e non poteva non essergli evidente.
“ Ora vedremo se avete la resistenza che vi attribuiscono” disse malizioso avviandosi al letto ed io risi felice tra le sue braccia mentre mi deponeva con infinita attenzione sulle coperte e si stendeva al mio fianco iniziando a spogliarmi.



EPILOGO

Erano passati molti decenni da quel giorno e la mia vita non poteva essere più ricca e felice.
Tante notti passate a correre a perdifiato per la montagna insieme ai miei lupi, tanti giorni trascorsi a godere della passione e dell’infinito amore che mi legava al mio taglialegna silenzioso.
Nulla della profonda tristezza che aveva accompagnato il mio arrivo in quei luoghi remoti e solitari mi ricordava la mia vita precedente. Gli anni trascorsi a Roma, l’abbandono della mia famiglia e il mio doloroso rapporto con un vampiro che non mi aveva voluta.
Nulla, tranne quello stesso magnifico bastardo dai capelli neri e dagli occhi grigi che mi guardava in quel momento dal fitto della boscaglia nel mezzo della mia montagna. Nudo come un verme e ferito, era in compagnia di una giovane umana dallo sguardo fiero e dall’atteggiamento possessivo.
- Max, che sorpresa - dissi seccata alzando gli occhi al cielo. - Speravo davvero fossi morto! -



L'autrice:
barbarariboni Barbara Riboni è nata a Milano dove vive insieme al marito ed al loro cane Nebbia.
Ama cucinare per rilassarsi, adora gli animali ed il mare, ma la sua grande passione sono i libri fantasy di cui è un'accanita lettrice.
PACTUM VAMPIRI è il suo romanzo d'esordio.

Edited by Pau_7 - 26/4/2014, 11:21
 
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view post Posted on 10/3/2013, 10:06
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Meglio regnare all'inferno che servire in paradiso...

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C'è una parola migliore di bellissimo?! forse, MERAVIGLIOSO!!
Zelda è uno dei personaggi che più mi aveva colpito in Pactum Vampiri e aver potuto approfondire la sua conoscenza è stato davvero un piacere!!
Zelda mi piace perchè non si arrende e cerca combattere per ciò che vuole anche se quello che vuole non la vuole, non ha una carattere pacato e dice sempre quello che pensa senza filtri! ma quello che più mi conquistata di lei è stata la sua voglia di amare ed essere amata!!
Non mi vergogno di dire che mi sono scappate 2 lacrime nel momento di maggior incomprensione tra Zelda e Amedeo...volevano stare insieme, nel vero senso della parole, ma erano frenati dalla loro paura di essere respinti per la loro "diversità"!! Ho accolto a braccia aperte la sensazione di farfalle nello stomaco quando tutto si è risolto ed hanno avuto il loro lieto fine! :wub:
Brava Barbara!! essere diversi non significa essere menomati ma solo essere speciali!!
 
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view post Posted on 10/3/2013, 10:59
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Davvero molto bello, come del resto bellissimo ho trovato il libro. Personaggi belli e indovinati, Zelda mi aveva incuriosito e la sua storia è davvero deliziosa. Aspetto la storia degli altri due fratelli, sperando di poterla leggere presto
 
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Miciarci
view post Posted on 10/3/2013, 20:18




Che belloooooooooooooooooooo!!!!
Non vedevo l'ora di poter leggere qualcosa di più su Zelda e Amedeo...a questo Max confesso che avrei dato due schiaffoni, ma per fortuna so come diventa dopo :wub: :wub: :wub:
Questa saga mi piace da impazzire e adoro il modo di scrivere di Barbara!!!
 
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lauracarrie85
view post Posted on 11/3/2013, 15:07




Ho appena terminato di leggere il racconto su Zelda, un personaggio che fin da subito all'interno di Pactum Vampiri aveva attirato la mia attenzione..che dire..il modo di scrivere di questa neo-scrittrice ti coinvolge sin da subito, i dettagli sono molto minuziosi e ti sembra di essere all'interno della storia mentre leggi..
Il modo in cui trova, protegge e si prende cura di Amadeo mi ha appassionato molto..con Max non poteva e non doveva andare avanti, è stato meglio così, lei ha sofferto troppo..con Amadeo è tutto così naturale, c'è una sintonia assurda tra di loro e anche nel momento in cui scopre la vera identità della donna capisce che ormai ne è completamente innamorato..e viceversa; la parte in cui narra delle due lupacchiotti mi ha anche commossa..
Ora non ci rimane che aspettare il seguito di Pactum Vampiri..e farti un grosso in bocca al lupo x tutto..
:wub:
 
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fantasyfriend
view post Posted on 11/3/2013, 23:36




Bravissima Baby,
anche questa volta sei riuscita a coinvolgermi a pieno ..la cura minuziosa dei dettagli riesce a far creare un video alla mente e ad immaginare con chiarezza situazioni , paesaggi e personaggi..che dire Zelda è il mio personaggio preferito di Pactum , forte nonostante abbia sofferto, sfrontata energica ed impertinente ma anche dolce e sensibile...bellissima anche la descrizione dei cuccioli e di come si muovono in maniera buffa dai sentimenti di zelda traspare il tuo amore per gli animali.Anche qui il tutto è in serito in un contesto storico e geografico che rende realistico il racconto..beh resto in attesa del seguito di Pactum e ..perchè no? di uno spin-off sul passato di Marco o dello stesso Max!!!
un in bocca al lupo perchè Pactum possa diventare un fenomeno che si espande a macchia d'olio ed una saga di successo sempre maggiore.
un amica di Edward, Jean Claude, Bones ed Ethan...!!! :ciaoo:
 
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milaleo
view post Posted on 12/3/2013, 23:31




Zelda è un personaggio molto particolare e vero. Chi non si sarebbe offerta così all'uomo che credeva di amare?E dopo aver scoperto che non voleva il suo amore chi non si sarebbe comportato come lei? A me è piaciuto moltissimo come Barbara ha legato il personaggio di Zelda alla natura, ai lupi, alla montagna. E mi è piaciuto moltissimo come è riuscita a far parlare i personaggi con il linguaggio del cuore senza parole. Non vedo l'ora di leggere il seguito di Pactum Vampiri e perchè no? Qualche altro racconto che parli dei vampiri che vivono nel mondo di questa saga. I miei personaggi preferiti sono i vampiri russi.. ma non mi disppiacciono neppure gli altri. Quindi Barbi sbrigati a scrivere il seguito!!! :rolleyes: :rolleyes: :rolleyes:
 
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Terry69
view post Posted on 14/3/2013, 17:48




cara barbara sono davvero estasiata da questo seguito di zelda e amedeo,davvero appassionante meraviglioso brava sapevo che mi sarebbe piacuto tantissimo non vedo l'ora di leggere il seguito bellissimo e molto travolgente.bello leggere anche di loro due che in pactum erano un pò nascosti ma conoscerli e stato davvero interessante bravissima <3 <3 <3
 
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pactum
view post Posted on 26/3/2013, 11:48




SONO MOLTO FIERA DELLA MIA SORELLONA .... ;) QUESTA STORIA èINIZIATA CON UNA TRAGEDIA KE VOLENTIERI AVREI PRESO ACALCI NEL C... MAX ... MA FINITA CON UNA GRANDE STORIA D'AMORE. AMEDEO E ZELDA KE COPPIA MERAVIGLIOSA . BRAVISSSSIIIMAA BARBARA
 
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view post Posted on 5/5/2013, 10:12

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Ho scoperto solo ora questo bellissimo racconto perché convinta fosse da leggere dopo pactum vampiri che non ho ancora trovato ( a prop qualcuno lo ha trovato in cartaceo o c'è solo in e-book?) e mi ha completamente catturata al punto che non vedo l'ora di sapere come continua la storia di Max Zelda Amedeo e tutti gli altri. I due lupachiotti sono un amore, mi è piaciuto molto il modo in cui portano Zelda a cambiare idea sulla propria morte e che dire della scena in cui Amedeo e Zelda si dichiarano i propri sentimenti ognuno convinto che l'altro non ricambi solo perché sono diversi? Spettacolare! Non ho ben chiara una cosa alla fine Zelda trasforma Amedeo ?
Cmq bellissima storia che mi fa desiderare di conoscere al più presto Max e la sua compagna così come gli altri due fratelli di Max
 
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view post Posted on 5/5/2013, 10:19
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Sono fatta così...un enigma avvolto in un indovinello e confezionato in un paradosso!

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CITAZIONE (g87 @ 5/5/2013, 11:12) 
Ho scoperto solo ora questo bellissimo racconto perché convinta fosse da leggere dopo pactum vampiri che non ho ancora trovato ( a prop qualcuno lo ha trovato in cartaceo o c'è solo in e-book?) e mi ha completamente catturata al punto che non vedo l'ora di sapere come continua la storia di Max Zelda Amedeo e tutti gli altri. I due lupachiotti sono un amore, mi è piaciuto molto il modo in cui portano Zelda a cambiare idea sulla propria morte e che dire della scena in cui Amedeo e Zelda si dichiarano i propri sentimenti ognuno convinto che l'altro non ricambi solo perché sono diversi? Spettacolare! Non ho ben chiara una cosa alla fine Zelda trasforma Amedeo ?
Cmq bellissima storia che mi fa desiderare di conoscere al più presto Max e la sua compagna così come gli altri due fratelli di Max

Al momento Pactum Vampiri si trova solo in cartaceo, non è mai uscito in formato elettronico.
Se non lo trovi nelle librerie o negli store online, ti consiglio di rivolgerti direttamente all'autrice che sicuramente avrà piacere a spedirtelo anche autografato. ;)

Per quanto riguarda questo spin-off, è stato scritto dopo l'uscita del romanzo e, anche se dovrebbe esser letto dopo, non credo avrai problemi perché non contiene spoiler, più che altro è un approfondimento su questa coppia che ci viene prtesentata nel romanzo e che ha conquistato praticamente tutti i lettori :)
Le altre risposte alle tue domande le avrai leggendo il romanzo! ;)
 
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view post Posted on 5/5/2013, 10:26

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Ok grazie mille lo cercherò sicuramente avevo capito che era uscito su amazon per questo ero convinta fosse un e-book
Oddio speravo di riuscire a strappanti qualche info sui protagonisti ma vedo che hai la bocca cucita cattiva :P :D così sale la voglia di saperne di più al più presto :lol: stasera vado in libreria ad ordinarlo se arriva a breve e non come certi libri universitari che aspetto da quasi un mese.....
 
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view post Posted on 5/5/2013, 10:37
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Sono fatta così...un enigma avvolto in un indovinello e confezionato in un paradosso!

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È che non voglio rovinarti la sorpresa di scoprire i particolari durante la lettura. :D
Questo è un libro che gli amanti dei vampiri non possono non leggere e se devi ordinarlo, ti consiglio di fartelo spedire direttamente da Barbara così da averlo anche autografato, se ti fa piacere.
Se vuoi posso darti il suo contatto facebook, fammi sapere.
 
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view post Posted on 5/5/2013, 11:18

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Ok grazie mille io amo molto i vampiri in qualunque modo vengano descritti perché il primo fantasy che ho comprato dopo il signore degli anelli (scoperto per caso ) e stato proprio sui vampiri cmq oggi vado in città e poi ti faccio sapere se devo ordinarlo grazie
 
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milenato
view post Posted on 27/5/2013, 07:08




Bello, profondo ed intenso.
 
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17 replies since 9/3/2013, 21:46   1000 views
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