La mia piccolina, di Piper Vaughn & M.J. O’Shea - 28 Maggio

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view post Posted on 29/5/2013, 16:17
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Sono fatta così...un enigma avvolto in un indovinello e confezionato in un paradosso!

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LA MIA PICCOLINA

Image and video hosting by TinyPic“Papà” non era un titolo che Rue Morraway desiderasse, ma non aveva neppure mai pensato di fare sesso con una donna. Adesso è il padre involontario di una neonata di nome Alice. Tra il suo lavoro come barista e la scuola per parrucchieri, Rue non ha il tempo per la bambina, ma non vuole darla via. Quello di cui ha bisogno è una babysitter e sta finendo le opzioni possibili. È sul punto di lasciare la scuola per badare lui stesso ad Alice, quando gli viene in mente il suo solitario vicino, Erik.

Erik Van Nuys è uno scrittore di libri di fantascienza con un sacco di problemi d’ansia. Non ama la gente in generale e ancora meno ama i bambini. Lo stesso, con i suoi assegni per i diritti in calo, ha bisogno di un entrata extra. Malvolentieri, si cala nel ruolo del tato e ancora meno volentieri, si trova a innamorarsi di Alice e del suo spumeggiante genitore.

Rue ed Erik sono tanto diversi quanto possono esserlo due persone e Alice è la più inusuale delle bimbe, ma Rue non è mai stato tanto felice quanto lo è con lei ed Erik al suo fianco. Almeno, fino a quando non riceve un’offerta che gli farebbe raggiungere tutti i suoi sogni e non si trova di fronte a una scelta: il futuro che ha sempre sognato o la famiglia che non aveva mai creduto di desiderare?

Editore: Dreamspinner Press
Genere: M/M
Pagine: 232
Formato: eBook
Estensione: .epub, .mobi, html, pdf

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ESTRATTO:
Prologo





Rue



STAVO passando una serata decisamente favolosa, se mi è permesso dirlo. Avevo applicato l’eye-liner proprio bene, i miei capelli salivano sparati e scendevano perfettamente a piombo nei punti giusti, e nel vestirmi ero riuscito a camminare su quella sottile linea che sta tra il leggermente troia e il profondamente puttana, che in qualche modo andava a finire con i ragazzi che sbavavano e io che ottenevo mance fantastiche. Come dicevo, davvero una serata favolosa.

“Rue, quand’è che mi permetterai di scoparti?”

Io feci una risatina. Oh, Devon. “Lo sai che la risposta è mai.” Risi di nuovo, ma mi assicurai che cogliesse l’antifona. “Oh, l’ironia, eh?” Due attivi non fanno una buona accoppiata a letto. In più, i ragazzi sembravano sempre volere altro dopo la prima volta. Un’altra notte passata a letto, un film, una cena, una relazione…

Io e le relazioni non eravamo una combinazione fortunata, e Devon era mio amico. Sì, meglio mantenere le cose com’erano.

“Torna a lavorare, Dev, o finirò col fregarti tutte le mance. Lo sai che il mio culo in questi pantaloncini fa una figura di gran lunga migliore di quel tuo coso magrolino e niente di che.”

Devon si afferrò il pacco e fece un gestaccio con l’altra mano. Non riuscii a fare a meno di ridere. Stare al lavoro con lui era sempre divertente.

Ero al secondo piano del Tom Tom Club, a servire al bar vicino alla pista da ballo dove, con il proseguire della serata, le magliette dei ragazzi sembravano sparire come brutti sogni – non che me ne fossi mai lamentato, sia chiaro. Li vedevo che si incamminavano a coppie verso il terrazzino per fumare e fare altro, e sorridevo… un po’ invidioso. Mi ero scopato un bel po’ di quei ragazzi ai miei tempi. Ah, i ricordi. A volte desideravo davvero di non essere lì per lavorare. E poi arrivava un’altra di quelle simpatiche mance, e io sbattevo gli occhi e mi ricordavo il motivo per cui mi trovavo lì. Per fare abbastanza quattrini, finire la scuola e levarmi dalle scatole… ehm, dal Delaware. Il sole della California stava gridando il mio nome.

Aspettami, West Hollywood , sto arrivando! Era quello il pensiero che mi faceva andare avanti certi giorni.





“RUE?”

Mi bloccai.

Dannazione. Doppia dannazione.

Percepii la sua presenza prima ancora di voltarmi. Britney stava cantando e io stavo scuotendo il culo e bevendo un sorso d’acqua, contento di avere un momento di pausa nel mezzo di una lunga notte sudata, quando la sentii.

Natalie.

Come sapevo che fosse lei prima ancora di girarmi? Immagino che fosse perché i miei errori avevano la brutta abitudine di tornare a tormentarmi. Se solo l’avessi immaginato, mi sarei nascosto prima che riuscisse a vedermi. Eppure credo che quello sarebbe stato il peggiore dei miei errori.

“Rue?” La voce non era diversa la seconda volta che chiamò il mio nome. Oh, cavoli. Non stavo avendo delle allucinazioni, dopotutto. Ti prego, dimmi che non le è sfuggito il fatto sfacciatamente ovvio che io sono, tipo, super gay, e che nonostante l’alcol sia riuscito a cambiarmi per un’orrenda mezz’ora della mia vita, sicuro come l’oro la cosa non si ripeterà mai più!

Mi girai, preparandomi al momento imbarazzante.

“Ciao, Natalie.” Cercai di sorridere. Più o meno fallii. Volevo chiudere gli occhi e immaginare che fosse George Cloon- orrore! I suoi occhi erano truccati così male quando avevo deciso che sarebbe diventata il mio esperimento? Anche da ubriaco fradicio avrei avuto più buon gusto di così!

“Rue, dobbiamo parlare.”

Fantastico. Quando mai quella frase porta a qualcosa che vuoi sentire? Risposta: uh, mai.

“Cos’è? Sono passati tipo…”

“Tre mesi. Tra qualche giorno.”

Feci una risatina strozzata, improvvisamente nervoso. Quando le donne iniziano a contare i giorni… oh, salve. Ossessione City.

“Quindi, come va?” Presi un sorso d’acqua, sperando che sembrasse casuale.

“Sono incinta.” E immediatamente la risputai su tutto il bancone del bar. Che ha detto?

“Sono contento per te dolcezza. Stai ancora con il padre?” Ti prego, ti prego, ti prego dì di sì.

“Sì, sono con lui in questo momento in effetti.”

Non è il sì che intendevo io.

Afferrai il bordo del bancone. Dei puntini neri cominciarono a esplodermi negli occhi. Agitai una mano per attirare l’attenzione di Devon.

“Devon, devo prendermi una pausa.” Quello che venne fuori, se possibile, suonava anche peggio di come stavo realmente. Potevo sentire il sapore della bile in fondo alla gola.

“Stai bene, zucchero?” Devon sollevò un curato sopracciglio rosa acceso fino a quasi fargli toccare l’altrettanto rosa attaccatura dei capelli. Mi carezzò la schiena con la mano snella e fresca. Io mi ritrassi, e poi mi sentii in colpa per averlo fatto. Devon stava soltanto cercando di aiutare.

“Non ne sono sicuro. Torno subito.”

“Prenditi il tuo tempo, tesorino. Io resto qui.” Si sporse e mi strinse la spalla. Gli rivolsi un debole sorriso prima di infilarmi sotto il cancelletto laterale del bar, facendo un cenno verso la (non era possibile che stesse succedendo sul serio)… madre di mio figlio?

Oh, chiunque ci sia lassù tra le stelle, salvami adesso!





“QUESTO. Non. È. Possibile,” sibilai non appena riuscii a portare Natalie in un angolo nascosto della balaustra da scopata – voglio dire, del terrazzo. Sentii un gemito nelle vicinanze e un sommesso rumore di carne contro carne. Sembrava essere il suono di ragazzi che scopavano (come al solito), ma magari poteva essere qualcos’altro… tipo il rumore del mio intero mondo che esplodeva in piccoli pezzi tutto intorno a me.

“È possibile. È successo. Il bambino è tuo.”

“Sei sicura?”

Le sopracciglia le si incollarono l’una all’altra. “Ma che cazzo, Rue?”

“Volevo solo controllare.”

“No, non sono una puttana, e sì, so che è tuo. Non è che avessi tutta ‘sta gente in fila per me, quel mese. Vuoi fare il test?”

“Ok, ok. Non c’è bisogno che ti scaldi tanto. Cosa vuoi che faccia?”

Lei si strinse nelle spalle. “Te lo sto solo dicendo nel caso tu voglia fare qualcosa. Non voglio abortire ma, cazzo, sono sicura che non voglio tenerlo. Non sono adatta a fare la mamma.”

Fare qualcosa? Cosa voleva che faces—

Oh. Mio. Dio. Credeva che io fossi portato a fare la mamma?

“Non posso avere un figlio, Nat! Io sono… beh… io sono…”

“La persona più materna che io abbia mai incontrato. Ti prendi continuamente cura di quella frana del tuo amico.”

“Dusty?” Lui era in effetti un po’ una frana, ma almeno aveva i pollici opponibili. I neonati li hanno già i pollici opponibili? Potevo sentirmi vorticare in quella modalità da fuori di testa in cui riuscivo a pensare a ogni stupida piccola cosa, eccetto al fatto che… oh mio Dio, sono un padre. O lo sarei stato a sei mesi da quel momento.

La musica continuava a pulsare all’interno del Club, martellando felice sopra la nuova danza Latina all’ultima moda, ma mi sentivo come se stessi implodendo ed esplodendo, trascinato fuori da ogni tipo di controllo. Di solito la mia presa sull’autocontrollo era comunque piuttosto scivolosa. Ma stavolta sembrava che l’avessi persa completamente.

Cercai ancora di fare un sorriso, che però si spense subito. “Quindi, cosa pensi di farne se non vuoi tenerlo?”

Natalie scrollò di nuovo le spalle. Avrei voluto urlarle contro. Come fai a restare così calma?

“Immagino che se tu non lo vuoi, allora potrei darlo in adozione.”

L’idea mi colpì dritto allo stomaco. Un altro bambino indesiderato nel mondo. Io ero stato indesiderato: i miei genitori mi avevano tenuto, ma ero comunque indesiderato. Ho sempre creduto che abbiano usato il mio essere gay come scusa per fare qualcosa che avrebbero voluto poter fare per tutta la durata della mia vita. Non avevo più parlato con loro fin dai miei sedici anni. Non volevo questo per il mio bambino. Il mio bambino, che sarebbe cresciuto nelle spire del sistema con qualcun altro, senza conoscere suo padre. Me. Io ero suo padre. Di lui. O di lei. Io. Oh, mio Dio.

“Lo prendo io.” L’ho appena detto ad alta voce? La mia orribile infanzia e il mio nuovo bisogno di occuparmi del mio stesso sangue erano arrivati alla carica da chissà dove. E peggio per me se non ero pronto.

“Vuoi il bambino?” Natalie sembrava più scioccata di quanto lo fossi io.

“Ehm…” fu tutto quello che riuscii a dire. Lo volevo sul serio? Lo volevo. Oh, mio Dio, lo volevo davvero. Sapevo cosa si provava a sentirsi abbandonati, e non avrei mai fatto una cosa del genere a un figlio mio, indipendentemente da quanto fosse inaspettato. “Voglio il bambino.” La bocca mi si asciugò completamente.

Gesù caro, in cosa mi ero appena cacciato?





TORNAI verso casa a piedi quella notte – in fretta, perché era tardi e davvero non volevo incappare in un branco di ragazzi di una qualche confraternita, ubriachi e che blateravano di pruriti da togliersi o di tifoserie di football. I ragazzi etero di solito non mi sono amici (a meno che non vogliano che me li scopi di brutto per poi fingere che non sia mai successo), e quel completo da super rimorchio, anche se così perfetto per tirare su le mance al Tom Tom? Già, sarebbe stato perfetto anche per attirare una rissa con quei ragazzoni. Un pestaggio al finocchio di turno era l’ultima cosa di cui avevo bisogno, con la serata che avevo appena passato.

Sapevo esattamente di cosa avevo bisogno. Tirai il cellulare fuori dalla tasca e, premendo due-D, attivai la chiamata veloce verso Dusty. Il mio migliore amico e l’unica vera famiglia che avevo da anni. Mi rispose intontito dopo alcuni squilli.

“Ehi, Underoo . Stavo dormendo, sai. Che succede?”

“Pensavo di averti detto di smetterla di chiamarmi in quel modo.”

Ci fu un lungo silenzio sulla linea. Avevo paura che Dusty se ne fosse tornato a letto a dormire. “Tu hai intenzione di smetterla di chiamarmi Dustpan ?”

Ridacchiai. Era sempre divertente, anche dopo qualcosa come un milione di anni. “No.”

“E allora neppure io. Di cosa hai bisogno, dolcezza? Non voglio svegliare Gary.”

“Stai ancora con lui? Pensavo ne avessimo già parlato.” Trattenni un lamento seccato. Stronzo bisteccone represso. “Ascoltami Dust, potrei aver fatto qualcosa di davvero impulsivo, stanotte.”

Dusty sbadigliò, forte e a lungo. “Smettila con le premesse.”

“No, sul serio. Beh, due cose a essere precisi. Una è stata un po’ di tempo fa.”

“Puoi dirmelo e basta? Ho troppo sonno per giocare all’indovina indovinello di Rue.” Ci fu un rumore attutito dall’altra parte. “Scusa piccolo,” sussurrò Dusty. “Soltanto un secondo, ok?”

“Ascolta, ti ricordi quella tipa, Natalie?”

“Strano lavoro mediocre, pessimo makeup, Natalie?”

Wow, aveva un’ottima memoria. Magari quel makeup era difficile da dimenticare.

“Quella lì. Allora, non metterti a vomitare, ma alcuni mesi fa ho deciso di tastare il terreno, mi capisci? Per assicurarmi di essere davvero, davvero gay.”

“Uhm, Underoo, sistemavi il trucco alle ragazzine già in quinta elementare. Cosa c’era da confermare?”

Sospirai. “Va bene, magari al momento mi era sembrata una buona idea, e adesso sto solo cercando di razionalizzare, a cose fatte.”

Dusty sbuffò. “Sei davvero stato con una ragazza? Tipo, sesso fino in fondo?”

“Uhm, già,” borbottai. Quella conversazione andava peggiorando con ogni secondo che passava.

“Che schifo. E come, esattamente, questa sarebbe stata una buona idea?” Potevo sentire lo shock e il disgusto di Dusty che risuonavano attraverso l’auricolare.

“Ero ubriaco?”

Dusty ridacchiò. “Mi sembrava anche molto mascolina. Voleva mettersi un vibratore addosso e fartelo prendere?”

Ero certo che Dusty potesse sentire attraverso il telefono i miei occhi che si alzavano verso il cielo. “Come se fosse possibile! Non sto sotto neppure per i ragazzi. Perché lo dovrei prendere da qualche tipa?”

“Quindi tu…?” Ci fu un altro momento di silenzio. “Oh, merda. Ti prego, non dirmi che questo discorso va a finire dove credo che andrà a finire.”

“Sì.” Oh, decisamente ci stava andando….

“Rue! Mi prendi in giro? E adesso?” La voce era attutita, come se avesse messo una mano davanti alla bocca.

“Lo tengo.”

“Tieni cosa?”

“Il bambino, Dust. Tengo il bambino. Natalie è incinta, è mio, e lei non lo vuole.”

Ecco, l’ho detto ad alta voce al mio migliore amico. Così lui mi può dire che sono pazzo, io cambierò idea, e l’intera faccenda verrà spazzata via da un’altra delle mie decisioni impulsive. Posso cambiare idea, vero?

Dusty emise un basso stridio al telefono. “Stai per diventare papà?”

Immagino di no.

“È tutto quello che hai da dire?” Mi sarei aspettato la paternale del secolo. Quasi ci speravo a dire il vero.

“Solo una cosa.”

“Cosa?”

“Io non ho intenzione di diventare Zio Dustpan.”





Erik



NOTIFICA DI SFRATTO



LE PAROLE erano scritte in uno sfacciato carattere in grassetto, tutto in maiuscole, dieci volte più largo del testo al di sotto. Sembravano urlarmi contro, stelle nere contro l’innocuo giallo burroso della carta su cui erano stampate, che si facevano sempre più chiassose, sempre più grandi, fino a quando non ne potevo più e giravo l’avviso a faccia in giù per non essere più costretto a guardarlo. Guardarlo non avrebbe cambiato nulla. Lo sapevo. E neppure leggere l’avviso per la ventesima volta, nell’arco dell’ultima ora, avrebbe aiutato.

La casa era silenziosa e io ero seduto sulla mia poltrona preferita, le dita vagavano nervosamente sulla pelle liscia dei braccioli. La sua consistenza era tranquillizzante, l’abitudine tanto familiare quanto l’atto di respirare. Probabilmente era l’unica cosa che mi stava mantenendo calmo. Per un attimo avevo pensato, quando avevo visto la notifica attaccata alla porta, che sarei esploso in pezzi, spedendo brandelli di me stesso a galleggiare nell’atmosfera. Non era successo. Ma parte di me quasi l’aveva sperato.

Che farò? Non posso lasciare questa casa. È mia. Avevo vissuto lì fin da quando avevo finito il college. La sola idea di andarmene mi faceva tremare tutto. Chi avrebbe avuto cura delle aiuole che avevo piantato nel cortile posteriore? Chi le avrebbe innaffiate, tolto le erbacce e ripiantate ogni primavera?

Oh, non ci potevo pensare. Pensarci mi faceva dolere lo stomaco e stringere il petto, rendeva i miei respiri rapidi e superficiali fino a farmi girare la testa. No, no, pensarci non andava bene. Ma non riuscivo neppure a non pensarci. Non riuscivo a non pensare al fatto che il proprietario della casa in cui avevo vissuto per sei anni mi aveva lasciato un avviso così impersonale, invece di venire a parlarmi di persona.

Avevo trenta giorni per liberare la proprietà, o per fare un’offerta d’acquisto. Non potevo permettermi di comprarla. Non sarei mai riuscito a pagare l’acconto, non con i miei magri assegni dei diritti d’autore, e l’editore aveva appena rifiutato la mia proposta per un libro. Dovevo venirmene fuori con qualcos’altro, mentre il mio agente lo proponeva in giro. E se nessuno l’avesse accettato? Se nessuno mi avesse più pubblicato? Scrivere era l’unica cosa che mi riusciva bene. Non avrei saputo cosa fare se non avessi più potuto guadagnarmi da vivere in quel modo.

Oh, Dio. Mi abbassai e misi la testa tra le ginocchia, prima di iniziare a iperventilare. No. No, no. Non farlo. Non ci pensare.

Non ero fatto per un tipo di lavoro più normale. Non riuscivo a cavarmela con le vendite o con il servizio clienti. O con qualunque cosa che avesse a che fare con degli estranei. La scuola era andata male abbastanza. Non mi erano mai piaciuti i luoghi affollati. Quelle aule enormi, piene zeppe di gente mi erano sempre sembrate minacciose. C’erano volte in cui non riuscivo neppure a mettere piede in classe.

A volte, trovarmi lì diventava troppo per me, un sovraccarico sensoriale, e parte di me si disconnetteva, come un server in cui stanno cercando di entrare troppe persone in una volta. Il cervello inviava un messaggio di errore e il corpo rispondeva cercando di tornare il più velocemente possibile in un ambiente familiare. A quel tempo era stata la mia camera a casa dei miei. In quei giorni invece, era quel mio piccolo angolo di paradiso, con i suoi pavimenti in rovere lucido e il vecchio caminetto di mattoni vicino al quale amavo sedermi nei mesi invernali, mentre scrivevo e bevevo cioccolata calda dalla tazza di Darth Vader.

Era casa. Lo era stata per oltre mezza decade. Ma nel giro di un mese sarei stato costretto ad abbandonarla, e non importa quanto provassi, non riuscivo ad accettare quell’idea. Dove andrò?

Non ero mai stato molto bravo con i cambiamenti. O, per dirla tutta – ero terribile con i cambiamenti. E lo sapevano anche i miei genitori. Mi avevano aiutato a trovare questo posto prima di trasferirsi a Boston poche settimane dopo il mio diploma, quando l’idea di lasciare la casa in cui ero cresciuto mi aveva spedito in nove diversi livelli di panico. Adesso questo luogo era diventato il mio santuario personale, calmo, tranquillo e oh, così silenzioso quando avevo bisogno che lo fosse. Potevo esporre tutti i miei modelli di navi spaziali e tutte le miniature di Star Wars senza preoccuparmi che potessero essere toccate o rotte, lasciare il mio laptop aperto sulla scrivania senza dovermi preoccupare di occhi curiosi, e mai, mai sarei stato costretto a far entrare qualcuno, se non lo volevo.

Era perfetto.

Un gemito si fece strada su per la gola. “Come può s-semplicemente buttarmi fuori?”

Non c’era risposta per quello. Ero sempre stato un ottimo affittuario. Avevo cura della casa e della proprietà, tenevo il prato tagliato e in estate potavo i cespugli, spazzavo i marciapiedi e d’inverno li cospargevo di sale contro il ghiaccio. Nessuno dei vicini aveva mai avuto nulla da ridire su di me, per quanto ne sapessi. Non ne avevano mai avuto motivo. Avevo fatto tutto bene, tutto nel modo in cui si supponeva dovessi comportarmi. Tutto.

“Oh… oh, D-Dio…” Voltai di nuovo il foglio, cercando tra le parole una qualche scappatoia, una qualche soluzione miracolosa. Non ce n’erano. O mi compravo la casa, o me ne andavo. Quelle erano le mie uniche opzioni. E non c’era modo che la potessi comprare. Davvero nessuno. Non c’era banca che mi avrebbe mai approvato un prestito con la vendita dei miei pochi libri come unico introito. Quindi, davvero, c’era una sola cosa che potessi fare: cercare un altro posto.

L’avviso scricchiolò quando lo serrai nel pugno. Non appena mi resi conto di cosa stessi facendo, in fretta lo rimisi sul tavolo, lisciando le pieghe, e picchiettandolo un paio di volte, per buona misura. Non conteneva risposte, solo dannazione, miseria del tipo peggiore. Un diavoletto dentro di me voleva farlo a pezzi. Ma poi avrei dovuto ripulire il disordine e, più di ogni altra cosa, non mi piaceva il disordine.

Mi risistemai nella poltrona, adocchiando il foglio di carta mentre le dita ritornavano alla loro abitudine di carezzare i braccioli. Dovevo fare qualcosa, trovare un qualche tipo di piano così da non spezzarmi sotto il peso dell’incertezza. Era quello che mi preoccupava di più – la sensazione di impotenza che arriva quando non sai cosa ti aspetta dopo.

Mamma. Lei avrebbe saputo cosa fare. Insieme avremmo potuto trovare una soluzione.

Tirai fuori il cellulare dalla tasca e feci il suo numero con dita tremanti. Lei rispose allegra come sempre, ma bastarono poche parole da parte mia perché il tono di voce le cambiasse da felice ad allarmato.

“Erik, tesoro, che succede?”

“Ho b-bisogno del tuo aiuto. D-devo trovare un altro posto dove v-vivere…”







Capitolo Uno





Sei mesi dopo

Rue



“DUSTY, non ho idea di cosa sto facendo.”

Guardai il fagottino al mio fianco, nel seggiolino dell’auto, addormentata con la bocca aperta, circondata da copertine felpate rosa e con il piccolo giocattolo di pezza che le aveva dato una delle infermiere. Era già bellissima. Io ero di parte, ovviamente, eppure aveva un soffice ciuffetto dei miei stessi capelli neri, una pelle pallida e soffice, e le guance rosate dal sonno. Perfetta e bellissima. Ma solo perché era così bella non è che io ne fossi meno spaventato. Una bambina. Era difficile credere che lei fosse mia. Sul serio.

Già, terrorizzato probabilmente era la definizione che più si avvicinava alla realtà. Nessun libro, nessuna di quelle lezioni al Pianeta Genitore, niente era stato minimamente sufficiente a prepararmi per quello che avrei dovuto affrontare. Almeno ero abbastanza sveglio da capire che avrei dovuto cambiare completamente il mio stile di vita. La domanda era, il cambiamento sarebbe stato in meglio o in peggio? Probabilmente solo il tempo avrebbe potuto dirlo.

Dusty ci stava riportando a casa dall’ospedale, per la nostra prima notte nel mondo vero: me e Alice. Mia figlia. Mi vennero le farfalle nello stomaco a quel pensiero.

“Non credi che sia un po’ tardi per chiederti che cosa stai facendo? Qualunque cosa sia, adesso ti tocca farlo.”

Io roteai gli occhi. Quello mi aiutava davvero. “Grazie per il supporto, zio Dustpan.”

“Credevo che ne avessimo parlato.” Ridacchiò Dusty. “Ascolta. Quelle signore all’ospedale ti hanno fuso le orecchie spiegandoti come curarla, nutrirla, e bla bla bla. Troveremo qualcuno che la possa tenere durante il giorno e poi te la caverai occupandoti di lei la sera e la notte, giusto?”

“E che faccio quando sono al bar?” Non avevo esattamente tenuto conto del mio lavoro e del mio orario scolastico quando avevo deciso che la mia bambina aveva bisogno di un padre, e che quel padre dovevo essere io. Ero completamente impreparato e avevo soltanto una breve settimana per diventarlo.

“Io lavoro al Bean soltanto tre sere a settimana, e immagino che a Rhonda non importi se Alice viene con me. Le altre sere posso venire io a casa tua prima dell’orario in cui devi uscire.”

Il “Bean” era per precisione il Temple of the Bean, l’insolita galleria d’arte e caffetteria in cui lavorava Dusty. Il posto di solito era pieno di ragazzini con i capelli blu o neri che spendevano fin troppo per eye-liner e rossetti scuri. Il look poteva anche essere forte se fatto bene, almeno secondo me, ma tremavo all’idea di mia figlia che passava tre sere a settimana in un ambiente del genere. Non che avessi molta scelta. Ero disperato. E sia, vada per il Temple of the Bean. Immaginai che qualunque posto fosse meglio del retro del Tom Tom Club. Non volevo che la mia bambina imparasse quel genere di abilità così presto… specialmente non da ragazzi che non avevano idea di cosa stessero facendo per una buona metà del tempo.

“Sei sicuro che non ti dispiaccia portarla con te?”

“Non importa. A cosa servono altrimenti i migliori amici e gli zii gay, giusto? Durerà soltanto fino a quando non saremo ricchi e famosi parrucchieri, comunque, e poi potremo assumere un’armata delle più brave e favolose tate per la nostra ragazza.”

“Solo le più fantastiche.” Sorrisi. “Ti voglio bene, Dust. Lo sai che in qualche modo dovrò ripagarti.”

“Se il pagamento si chiama Gucci e viene dalla collezione autunnale, sarò un bimbo felice.”

“Lo terrò a mente.”

“Mi piace il cammello con le strisce verdi e rosse – oh, e la fibbia dorata.”

A quel punto mi misi a ridere sul serio. Continua a sognare in grande, Dust.

Si fermò come se fosse una nonnina di fianco al marciapiede, proprio di fronte al mio palazzo. L’appartamento al quarto piano con gli alti soffitti e quella personalità che avevo amato davvero, davvero, davvero tanto soltanto un anno prima, cominciava a sembrare stretto con una bambina e tutta quella sua roba pesante. Con l’aiuto di Dusty presi tutto, passai il braccio nel manico del seggiolino di Alice e cominciai la lunga arrampicata su per le scale, con Dusty in coda. Come facesse la gente a gestire i bambini senza l’aiuto di una tata ventiquattro ore su ventiquattro e un valletto, per me rimaneva un mistero. Per fortuna io ne avevo a disposizione uno part-time. Almeno fino a quando il suo ragazzo non si fosse scocciato del fatto che spariva per la maggior parte del tempo e non avesse deciso di farne un dramma.

Era sembrato tutto semplice finché ero rimasto nell’auto con Dusty, con il mio migliore amico che mi rassicurava sul fatto che sarebbe andato tutto bene. Sembrava ancora facile, mentre trafficava dentro casa mia, spostando le cose della bimba nella sua piccola nursery (ciao-ciao, cabina armadio), preparando il tè e i toast e squittendo a bassa voce, dicendole quanto fosse perfetta e adorabile.

Non sembrò più così facile nel momento in cui mi ritrovai da solo nel mio amato vecchio appartamento al quarto – dannato – piano, con un sacco di pavimenti duri e angoli scoperti, responsabile per un piccolo fagottino di copertine rosa e pelle soffice che contava su di me per stare al sicuro e per essere felice. Il benessere di Alice. Aggiungiamolo alla lista di cose che mi terrorizza.

Mi misi a sedere sul divano di pelle nera e con attenzione poggiai il seggiolino sul cuscino di fianco a me. Sciolsi con cura le cinghie che tenevano Alice al sicuro, non volendo disturbare il suo riposo. Mi sentivo strano… e stranamente bene, mentre la sollevavo e me la sistemavo tra le braccia.

“Ciao piccolina. Io sono il tuo papà,” le mormorai, passandole il dito sul nasino. “Ti ho aspettata per tanto tempo.”

Erano davvero sembrati un’eternità, gli ultimi sei mesi – aspettativa, terribili paure, alcuni momenti in cui non vedevo l’ora di incontrare la mia piccola, altri in cui non facevo che pensare, “In cosa diavolo mi sono andato a ficcare?” Comunque, adesso era troppo tardi per tutto quello. Lei era viva, proprio lì tra le mie braccia, e dormiva tranquilla.

La sua pelle era davvero della più bella delle sfumature. Quasi come un pallido petalo di rosa, pensai, prima di gemere all’idea di quanto la paternità mi avesse già reso sdolcinato.

“Cosa farò con te, amore?”

Avevo fatto alcune mezze ricerche su internet per delle tate, ed ero rimasto scioccato dai prezzi. Non erano esattamente quello che poteva permettersi un barista/studente alla scuola per parrucchieri. Parte di me aveva sperato che per il momento in cui fosse arrivata Alice, sarei miracolosamente diventato ricco. Chiaramente non era successo. Almeno avevo Dusty per la sera. Era una buona cosa, perché il costo per l’asilo nido giornaliero sarebbe stato quasi sufficiente a mandare la bimba all’università. Avevo intenzione di andare a visitarne alcuni la mattina dopo, ma mandarla in uno di quei rumorosi festini di germi mi terrorizzava quasi quanto darla in adozione. No, non mi piaceva l’idea degli asili nido, ma visto che non ero esattamente Brangelina, uno di quelli sarebbe dovuto andare bene.

Domani mattina…

Ero esausto e niente affatto ottimista verso la possibilità che Alice avrebbe dormito per tutta la notte. Era il momento di prendermi almeno un poco di riposo. Mi alzai in piedi con attenzione, assicurandomi di non strappare mia figlia al suo sonno. Non ero sicuro di cosa avrei fatto se si fosse messa a piangere perché l’avevo svegliata. Sarei andato nel panico, forse. Probabilmente. Oh, in che diavolo di situazione mi sono cacciato?

Lei comunque non si svegliò, giacendo piuttosto soddisfatta tra le mie braccia, tranquilla, calda e profumata. La misi nella sua nuova piccola culla, con i cuscini rosa e verde chiaro, e le passai le dita sul nasino.

“Buonanotte, tesoro mio. Benvenuta al mondo.”





Erik



SETTE centimetri a sinistra. Cinque in avanti. Lì. Perfetto.

Feci un passo indietro e diedi ai miei gerani uno sguardo critico. Sotto le mie cure, i fiori scarlatti stavano fiorendo rigogliosi. Il vaso era posato sul bancone della cucina, proprio nel punto che ogni giorno riceveva più sole. Mi era servita più di una settimana di prove per scoprirlo. Avevo portato i gerani con me dal mio vecchio giardino quando mi ero trasferito e dovevo ammettere che era bello averli con me. Ma comunque non era la stessa cosa. Mi mancavano le ordinate aiuole in fiore che avevo nel cortile posteriore della mia vecchia casa.

Casa. Quando avrei smesso di pensare quella parola? Non era più casa mia. Non lo era più da almeno sei mesi. Non importava quanto mi mancasse, non potevo tornare indietro. Adesso, casa era quella. Quell’appartamento dagli alti soffitti, i pavimenti in ciliegio e le pareti di un bianco brillante. Non era male. In effetti, aveva il suo particolare tipo di fascino. E avevo visto case molto peggiori durante la mia ricerca, prima che mia mamma fosse arrivata da Boston per aiutarmi. Era rimasta addirittura fino a quando non avevo impacchettato tutto e traslocato. Ma comunque non era casa, indipendentemente da quanto tempo ci vivevo. Non ero neppure sicuro che lo sarebbe mai diventata.

Per prima cosa, l’affitto superava di quasi duecento dollari quello che pagavo prima per la mia casa, che andavano ad alleggerire il mio budget già limitato. Secondo, i vicini erano fin troppo vicini perché mi sentissi a mio agio. Solo pochi metri separavano la mia porta d’ingresso da quella di fronte. Ma, tra gli aspetti positivi, le pareti erano spesse e il proprietario non aveva mentito a proposito del silenzio. C’erano regole ferree riguardanti il controllo dei rumori e mi aveva assicurato che il mio vicino della porta accanto, con cui condividevo una parete, era raramente a casa. Non avevo visto molto neppure gli occupanti degli altri due appartamenti. Fino a quel momento ero riuscito a scrivere indisturbato e, poiché mi trovavo all’ultimo piano, non dovevo neppure preoccuparmi che qualcuno mi camminasse sopra la testa.

Ma a volte arrivavano strani odori dal corridoio, di quello che stavano cucinando gli altri, e che sembravano restare nell’aria per ore. Poi c’era la microscopica stanza per la lavanderia nel seminterrato, che era umida, sporca e che mi faceva prudere la pelle. Sarebbe potuta andare peggio, comunque. Molto peggio. Mi aggrappavo a quel pensiero con una presa d’acciaio.

I primissimi mesi non erano stati facili. Dormire era stato quasi impossibile. C’erano state un sacco di notti in cui mi ero tormentato nella mia poltrona preferita fino a quando la stanchezza, finalmente, non mi aveva sconfitto. Nell’ultimo periodo, ero riuscito a restare nel letto per la maggior parte delle notti e non passavo più molto tempo in poltrona. Ero sceso a tre, quattro ore al giorno, che era un grosso miglioramento, considerando che avevo passato quasi tutta la prima settimana raggomitolato contro la pelle scura, carezzando ossessivamente i braccioli, come se potessi svelare tutti i misteri dell’universo a condizione di non smettere mai di muovermi.

Disfare gli scatoloni era stata un’altra sfida. Avevo sofferto nel posizionamento di ogni più minimo pezzo d’arredamento e di ognuno dei miei averi, dalle mie tazze da caffè fino alle mie centinaia di libri e alle lattine e alle scatole di cibo in dispensa. Tutto doveva avere il suo posto, e non mi ero potuto riposare fino a quando non avevo trovato la posizione perfetta per ogni cosa.

Tutto il processo era durato più di un mese, interrotto da sedute di scrittura e da maratone di Star Wars quando lo stress diventava troppo. Solo la trilogia originale, sia chiaro, non quelli nuovi. Avevo anche quelli, ma di solito fingevo che non esistessero, più o meno come facevo con i film di Terminator che erano usciti dopo T2. Ai tempi del VHS avevo posseduto più di una copia de Il ritorno dello Jedi, il mio preferito dei tre. Adesso tenevo da parte due nuove copie di backup per ogni film. Giusto in caso.

Pensare ai film mi aveva ricordato che non guardavo la trilogia da alcuni giorni. Non ero dell’umore giusto per scrivere – non lo ero stato per le ultime settimane, a dire il vero. Non da quando avevo finito l’ultima storia e l’avevo passata al mio agente. Ovviamente, non aiutava neppure il fatto che ancora non avessi sentito nulla a proposito di quella che gli avevo dato alcuni mesi prima, ma sembrava che in ogni caso il mio cervello avesse bisogno di un periodo di ripresa dopo ogni progetto. Non ero mai stato capace di saltare direttamente in qualcosa di nuovo. Ma c’erano altre ragioni per cui non riuscivo a scrivere in quel periodo. La preoccupazione costante non è una buona compagna di scrittura ed era difficile non preoccuparsi. Se quei libri non venivano accettati da qualcuno, o se le mie vendite non cominciavano ad aumentare, presto, probabilmente avrei dovuto cominciare a pescare dal mio pietoso conto d’emergenza per coprire l’affitto.

Star Wars poteva essere proprio la cosa adatta a distrarmi e magari avrebbe fatto ripartire il funzionamento della mia vecchia zucca. Comunque, non è che avessi molto altro da fare.

Accesi lo schermo piatto e infilai Star Wars – Una nuova speranza nel lettore DVD, poi andai in cucina per prepararmi un sacchetto di popcorn al microonde mentre il film si caricava. Un Gatorade e un sacchetto di Twizzlers completavano il mio spuntino e, incidentalmente, la mia cena. Portai il tutto in salotto, mi sistemai in poltrona e premetti “play” sul telecomando.

Avevano appena cominciato a scorrere i titoli di testa, quando qualcuno bussò alla porta. Mi bloccai con un chicco di popcorn a metà strada verso la bocca. Una veloce occhiata all’orologio mi confermò che era, come pensavo, soltanto mercoledì. Il mio ordine fatto al negozio di alimentari non sarebbe arrivato prima di lunedì mattina. Quindi non c’era motivo che qualcuno bussasse alla mia porta….

A meno che non sia il proprietario. A meno non che sia venuto per dirmi che qualcosa non va con l’affitto e che devo andarmene entro la fine del mese. Trovare un posto nuovo. Impacchettare tutto. Cominciare da capo un’altra volta.

Feci ricadere il popcorn nel sacchetto quando, chiunque fosse quello che stava nel corridoio, bussò di nuovo, un po’ più urgentemente. Lo stomaco mi si contrasse, la manciata di chicchi che avevo già ingoiato minacciavano di fare una nuova apparizione. Per un momento, fui tentato di rimanermene semplicemente in poltrona e di ignorare il rumore. Ma il bussare continuò, e se era davvero il proprietario non avevo altra scelta che fronteggiarlo comunque, prima o poi.

Mi ripulii le dita unte in uno dei tovaglioli che avevo portato dalla cucina e mi misi in piedi. Avevo le mani ghiacciate e le ginocchia molli.

“A-a-arrivo,” mi costrinsi a dire, mentre mi avvicinavo alla porta, così che chiunque fosse dall’altro lato la smettesse con tutto quel bussare. Avevo lo stomaco annodato e i respiri mi uscivano veloci e affannati.

Mi fermai di fronte alla porta, stringendo la maniglia in una presa che mi fece sbiancare le nocche, mentre cercavo di riprendere un qualche tipo di controllo.

Andrà tutto bene. Non importa come, andrà tutto bene.

Potevo parlare con il proprietario fino a convincerlo a lasciarmi restare. Potevo spiegare che non potevo andarmene adesso, vede, perché mi sono appena sistemato. Non sarebbe stato giusto costringermi ad andare via. Semplicemente, non sarebbe stato giusto.

Chiudendo brevemente gli occhi, girai la maniglia e aprii la porta.

“Salve,” disse allegramente una voce. Ma non quella che mi ero aspettato.

Spalancai gli occhi e mi ci vollero alcuni momenti per capire realmente cosa stessi guardando. Una volta capito, riuscii soltanto a sbattere gli occhi per la sorpresa. Nel corridoio c’era un ragazzo… o, magari, un uomo a dire il vero, ma sembrava giovane. Forse poco più che ventenne, se avessi dovuto tirare a indovinare. I lisci capelli neri erano pettinati da un lato, coprendo in parte uno degli occhi. Da ciò che riuscivo a vedere di quello e dell’altro occhio, erano verdi. Ma non era il colore che mi aveva colpito. Era il fatto che fossero attentamente contornati da una linea nera… e la sua pelle era bianca come porcellana… e il suo labbro inferiore aveva due piercing, due di quei cerchi con la pallina, ciascuno a circa due centimetri dal centro.

Assimilai il tutto, ancora troppo confuso per riuscire a parlare. E questo prima che dessi un’occhiata ai suoi vestiti. Indossava una maglia nera aderente e un paio di quei pantaloni da ragazza che si fermano a metà polpaccio. Pendevano bassi sui suoi fianchi ed erano tenuti su da una cintura borchiata rosa acceso… che si abbinava alle infradito rosa che indossava ai suoi perfetti piccoli piedi. Gli fissai le dita – le unghie erano dipinte di nero con dei bagliori rosati – fino a quando il rumore di lui che si schiariva la voce non riportò la mia attenzione al suo viso.

“Ciao,” disse di nuovo, porgendomi la mano. Fu solo allora che notai quella che sembrava una sorridente macchinina rosa appesa all’altro suo braccio. “Sono Rue Murray. Vivo nell’appartamento accanto.”

Lo fissai e gli strinsi la mano senza pensare. “Rue come rimorso? Tipo, ‘parlò con rimorso’? Tipo ‘pentirsi del…”

“Rue come Rufus,” mi interruppe, esasperato. “Ma nessuno mi chiama in quel modo,” aggiunse con tono minaccioso. “Nessuno.”


Edited by A&P - 8/7/2013, 22:37
 
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