Ritorno a casa, di Cardeno C. - 3° Libro della serie "Home"

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AnitaBlake
view post Posted on 13/1/2013, 21:21




RITORNO A CASA

homeagainitlgNoah Forman si sveglia in un ospedale e non ricorda come ci è arrivato. Tiene duro, traendo conforto dal fatto che l'uomo che ha amato sin dall’adolescenza, il suo compagno Clark Lehman, lo stia per raggiungere. Ma quando Clark finalmente arriva, Noah è sconvolto perché scopre di non ricordare nulla degli ultimi tre anni e non riesce a capirne il motivo. Confronti dolorosi saranno necessari perché Noah possa capire la ragione della perdita dei suoi ricordi più recenti… e assicurarsi così di avere con Clark il futuro che aveva sempre sognato.

Editore: Dreamspinner Press in Italiano
Genere: M/M
Pagine: 179
Formato: eBook
Estensione: .epub, .mobi, .prc, html, pdf

La serie "Home" è così composta:
1 - Dove lui finisce e io comincio
2 - Amore a prima vista
3 - Ritorno a casa
4 - Lui mi completa
I libri della serie "Home" sono autoconclusivi e possono essere letti in qualsiasi ordine.

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ESTRATTO:
Capitolo Uno





Noah—Presente



UN SUONO insistente e fastidioso continua a infiltrarsi nella mia mente. Riesco a zittirlo per un po', solo per sentirlo poi tornare di nuovo.

“Beep-beep-beep.”

Cos’è questo rumore? Forse posso scoprirne la fonte e farlo smettere. Ah, ma per farlo dovrei aprire gli occhi e le mie palpebre sono così pesanti. Non penso di averle mai avute così pesanti.

Il beep-beep-beep è diventato più forte, o forse sono io che ne sono più consapevole. E c’è uno strano odore. Non sgradevole, ma nemmeno piacevole. Come un intenso odore chimico.

“Beep-beep-beep.”

Cos’è? Abbiamo comprato una nuova sveglia? Non ne abbiamo mai avuta una. Il corpo di Clark ha l'incredibile capacità di sapere che ore sono, anche quando dorme, quindi non è mai capitato che ci svegliassimo in ritardo.

“Beep-beep-beep.”

Forse posso allungare la mano e spegnerla. Non c'è bisogno che apra gli occhi per farlo, devo solo sollevare il braccio. Oh, anche quello è pesante. E mi fa male. Perché mi fa male il braccio? E non solo il braccio, anche le gambe, tutte e due. Mi sento il petto compresso, quasi come se stesse bruciando. Cosa diavolo sta succedendo?

Clark. Ho bisogno di Clark. Migliorerà le cose.

Cercai di chiamarlo, ma sentivo la lingua gonfia e pesante e la bocca era come se fosse piena di cotone. Mi sforzai di concentrare ogni grammo di energia sulla mia lingua e sulla mia bocca. Sapevo che se fossi riuscito a dire almeno una parola, sarebbe andato tutto meglio. Lui avrebbe fatto andare tutto meglio.

“Clark?”

La mia voce era debole e spezzata, completamente estranea alle mie orecchie.

“Oh, mio Dio, Noah. Noah? Riesci a sentirmi? Sei sveglio?”

Dolore e stanchezza si trasformarono in rabbia in un battito di ciglia. Certo, se solo riuscissi a sbattere le ciglia, cosa che non posso fare, perché per farlo dovrei aprire gli occhi ed è un movimento che richiede una forza che apparentemente non ho. Un attimo, posso sollevare un peso due volte il mio e mi sono appena lamentato di quello delle mie palpebre? Stiamo scherzando? Comunque, il punto era che quella non era la voce di Clark. Beh, il lato positivo della rabbia era l'adrenalina, che mi diede la forza di pronunciare altre parole.

“Cos'hai fatto, Ben? Dov'è Clark? Cos'hai fatto a Clark?”

Mentre il mio cervello cominciava a pensare lucidamente, mi sentii prendere dal panico. Un panico profondo, di quelli che ti rubano il respiro, ti fanno battere forte il cuore e ti fanno sudare. Non potevo muovermi, non potevo aprire gli occhi e il mio amante non era lì. Fu quest'ultima cosa che mi terrorizzò veramente.

“Se gli hai fatto del male, Ben... ti giuro che ti uccido. Cosa diavolo hai fatto a Clark?!”

La mia voce risuonò più forte e il rumore fastidioso diventò più intenso, o forse più rapido, non ne sono sicuro. Con uno sforzo non indifferente, finalmente riuscii ad aprire gli occhi.

Tutto era di un colore bianco grigiastro. I muri, i pannelli sul soffitto, le luci fluorescenti e le lenzuola, tutto era di un color bianco sporco.

Dove diavolo sono? La televisione ancorata alla parete, un carrello di metallo sotto di essa e una porta a fianco. Lenzuola bianche, pesanti e ruvide, mi ricoprivano. Oh, e non dimentichiamoci del 'beep'. Quel suono onnipresente.

“Non ho fatto niente. Hai avuto un incidente, Noah. Sei stato privo di conoscenza per settimane. Ero così preoccupato. Grazie a Dio finalmente sei sveglio.”

Sentii la sua mano afferrare la mia e sforzai i miei occhi per mettere a fuoco il viso di mio fratello. I suoi capelli, di solito perfetti, erano scompigliati, la camicia sembrava spiegazzata e i suoi occhi erano umidi di lacrime non versate. Tutte quelle cose erano insolite per lui, ma la cosa che mi colpì maggiormente fu che sembrava più vecchio, non solo così stanco da sembrare smunto, nonostante fosse realmente così. C’era dell’altro. Il suo viso, bello come quello di un attore del cinema, sembrava più vecchio.

Erano passati due anni dall’ultima volta che avevo visto mio fratello, il che significava che aveva, quanto? Ventotto anni il mese prossimo. Era solo di un paio di mesi più giovane di Clark. Era davvero invecchiato così tanto in due anni? Un attimo, aveva detto settimane? Sbattei le palpebre e cercai di concentrarmi sulle cose importanti.

“Dov'è Clark?”

Mio fratello sembrò ansioso e sorpreso.

“Dannazione, Ben! Rispondimi! Cosa gli è successo? Dov'è? È rimasto coinvolto nell'incidente? Voglio vederlo. Ho bisogno di vederlo. Dov'è Clark?”

Il panico era quasi accecante. Non riuscivo a respirare. Poi tutto cominciò a diventare scuro.

Non era possibile che Clark mi avesse lasciato solo all'ospedale, a meno che non fosse… no.

Non mi sarei permesso di finire quel pensiero. Il 'beep' era più rapido ora, incessante, quasi un unico e lungo suono senza pause.

“Che cosa sta succedendo qui? Oh! È sveglio. Faccio chiamare il medico.”

Una donna corpulenta in camice rosa si fece strada passando davanti a mio fratello, arrivò vicino alla mia testa e girò una manopola sulla macchina che si trovava accanto al mio letto, facendo finalmente cessare quel rumore orribile. Alleluia!

“Signor Forman? Può sentirmi?”

Chiusi gli occhi, mi sforzai di respirare più lentamente, poi mi concentrai sull’infermiera.

“Certo che posso sentirla. La prego, può dirmi dov'è il mio compagno? Clark Lehman. È ricoverato qui? Sta bene? Ho bisogno di vederlo. Per favore.”

La donna sembrò confusa, aprì la bocca per rispondere, e in quel momento…

“Signor Forman. È meraviglioso vederla sveglio. Sono il dottor Garcia.”

Un uomo dai capelli scuri con pantaloni grigio scuro, una camicia azzurra e un camice bianco, prese una penna luminosa e me la puntò negli occhi.

“Può seguire la luce, Signor Forman?”

La luce si muoveva da destra a sinistra. Lo assecondai per cinque secondi prima di tornare alla mia domanda.

“Dottor...”

“Garcia. Dottor Garcia.”

“Giusto. Mi scusi. Senta, dottor Garcia, sarò ben felice di seguire la sua luce o qualsiasi altra cosa, ma prima ho bisogno che qualcuno mi dica dov'è il mio compagno. Sto davvero iniziando a dare di matto. Si chiama Clark Lehman. Dovrebbe essere qui. So che sarebbe qui se potesse. Devo sapere se gli è successo qualcosa.”

Sentii le lacrime salirmi agli occhi. Non poteva essere così. Non era possibile. L'avrei sentito.

“È...”

Deglutii e mi sforzai di continuare.

“ È… Clark è morto?”

Anche solo pronunciare quelle parole faceva male. Un dolore che mi consumava, che non mi faceva sentire nient'altro, che mi faceva pensare che non avesse senso continuare a vivere. Chiusi gli occhi per alleviare la pena e tornai nell'oscurità.





Clark—Passato



BENJAMIN FORMAN era alto più di un metro e ottanta, con spalle larghe, vita stretta e muscoli voluminosi. Aveva folti capelli castani sempre in perfetto ordine, occhi grandi e marroni che brillavano quando rideva, labbra carnose e rosse, naso dritto, mascella forte e un viso perfettamente simmetrico che ogni modello gli avrebbe invidiato. Al liceo, faceva parte dei titolari delle squadre di basket, baseball e football. Era nel consiglio studentesco, frequentava corsi speciali e faceva volontariamente da tutor d'inglese due volte la settimana per gli studenti di Seconda Lingua. Era stato eletto re dell’Homecoming , re del ballo di fine anno, il più bello del liceo ed era quello che avrebbe finito la scuola con i voti più alti. E, in aggiunta a tutte queste cose, era il mio migliore amico.

Io ero nuovo in città e passavo la gran parte del tempo con Mister-Troppo-Perfetto-Per-Essere-Reale. Questa dovrebbe essere la parte di storia in cui vi dico che avevo una cotta per Ben. E, in una favola vera, vi direi che, dopo mesi o anni di angoscia, aveva ammesso di essere pazzamente e profondamente innamorato di me, ma non è questo il caso. A Ben piacevano le ragazze e io non avevo mai provato niente per lui, niente di diverso da un sentimento di amicizia platonica. Semplicemente non era il mio tipo. Suo fratello, invece, mi catturò dal primo istante in cui lo vidi. Noah Forman fu tutto per me, sin dal primo momento.

Cercare di descrivere Noah è come provare a descrivere il vento durante una tempesta. Puoi odorarlo e sentirlo attorno a te anche senza vederlo. A volte, il vento è così palpabile che puoi letteralmente assaggiarlo, senza far altro che aprire la bocca. E, se la tempesta è davvero forte, diventa selvaggio e caotico e lo puoi sentire arrivare da tutte le direzioni. Questo è Noah. Non che non lo si possa vedere, ovviamente. Non è invisibile. È che la sua essenza è così potente che non hai bisogno degli occhi per percepirlo. Almeno, io non ne ho mai avuto bisogno: la mia reazione nei suoi confronti è sempre stata viscerale e ha sempre coinvolto tutto il mio essere.

So che descrivere qualcuno come selvaggio, caotico e che ti arriva da tutte le direzioni potrebbe farlo sembrare una persona che salta da una parte all'altra, qualcuno senza direzione e che non prende alcun impegno. Eppure questo non è Noah, nemmeno un po'. In qualche modo, lui riesce a unire il suo lato selvaggio e libero a quello coscienzioso e affidabile, ed è sempre stato impegnato con me, dal primo momento in cui ci siamo conosciuti, quando io avevo diciassette anni e Noah tredici.





QUELL’ANNO, io e mia madre c’eravamo trasferiti a Emile City per vivere vicino ai miei zii, in modo che potessero prendersi cura di me se lei fosse morta prima che compissi diciotto anni. Oh sì, vi ho detto che quell’anno stavo perdendo la mia migliore amica? Non ho cambiato argomento; mia mamma era la mia migliore amica. E io ero il suo.

Non avevo mai conosciuto mio padre, cosa che per me non era certo una tragedia greca. Io e mia madre eravamo molto uniti. Eravamo sempre stati solo noi due. Non pensavo molto a mio padre, ma quando le chiedevo di lui, lei lo elogiava sempre. Diceva che era un uomo perbene, serio, intelligente e bello, con gli occhi azzurri come i miei. Non si conoscevano da molto quando era rimasta incinta e, quando si era resa conto di esserlo, si erano già lasciati. Era finita in modo amichevole, come tutte le relazioni di mia madre. Nessuno riusciva a restare arrabbiato con lei.

Aveva pensato di avvisarlo del fatto che stava per diventare padre, ma a quei tempi lui aveva già lasciato la città alla ricerca di pascoli più verdi, e aveva sempre detto di non essere interessato ad avere figli o a sposarsi. Così, mia mamma aveva deciso che non c’era ragione per sconvolgergli la vita. Lei aveva quarant’anni, un buon lavoro come curatrice di una galleria d’arte e aveva sempre voluto un bambino, così aveva deciso di tenermi e, secondo lei, la responsabilità era solo sua.

Non mi avrebbe mai impedito di cercarlo, né mi avrebbe mai fatto sentire come se la stessi tradendo, nel caso fossi stato interessato a trovarlo. Solo che non lo ero. Pensavo che forse un giorno avrei potuto farlo, giusto per vedere com’era fatto e fargli sapere che aveva un figlio in giro per il mondo, ma quel giorno non era ancora arrivato quando a mia madre venne diagnosticato un cancro alle ovaie. Nel momento in cui i medici lo scoprirono, non ci fu molto altro da fare se non tenerle la mano durante le sedute aggressive di chemioterapia e sperare che fosse una delle poche persone che sarebbe sopravvissuta alla malattia.

Mia mamma era bassa, poco più di un metro e cinquanta e pesava circa quaranta chili. Avendo ereditato l’altezza di mio padre, insieme ai suoi occhi, ero già più alto e più robusto di lei all’età di sedici anni. Il giorno che mi parlò di ciò che le avevano diagnosticato, restammo seduti insieme sul divano viola della nostra piccola casa sulla spiaggia mentre la tenevo tra le braccia ed entrambi piangevamo. Quando finimmo le lacrime e i fazzoletti, lei mi disse che avremmo dovuto trasferirci. Voleva trovare un posto dove potessi restare se fosse accaduto il peggio e lei non ce l’avesse fatta.

Questa era mia mamma: sempre diretta. Non indorava mai la pillola né mi trattava come un bambino. Sapevamo entrambi che le sue possibilità di sopravvivenza erano esigue e non voleva insultare la mia intelligenza fingendo il contrario. Era una cosa in lei che amavo e apprezzavo, anche se una parte di me avrebbe voluto sprofondare la testa nella sabbia e fingere che non fosse malata, che non stesse morendo e che non stesse per lasciarmi solo al mondo.

Così, quel giorno sul divano, mia madre mi offrì di scegliere se cercare di trovare mio padre o andare a vivere con lei vicino a sua sorella a Emile City. Visto che vedere mio padre non mi interessava, scelsi la seconda opzione, non sapendo che là avrei davvero trovato la mia casa. E non sto parlando della casa di mia zia e mio zio. Sto parlando di Noah.





INIZIAI la scuola a metà anno, ma recuperai rapidamente. I compiti in classe non erano particolarmente difficili per me e socialmente me la cavavo bene. Mi unii alla squadra di baseball non appena iniziò la stagione, sapendo che sarebbe stato un buon modo per farsi degli amici. Non ero un grande atleta, ma nemmeno terribile. Fondamentalmente ero abbastanza bravo da entrare in squadra senza mettermi in ridicolo.

Ben Forman era il miglior giocatore della squadra. Sarebbe probabilmente stato capitano se l’allenatore non avesse concesso quel privilegio a uno studente dell'ultimo anno. Così, io Ben giocavamo insieme a baseball e, visto che eravamo entrambi al penultimo anno, avevamo alcune lezioni in comune. Poi, un giorno in mensa, Ben mi chiamò per farmi sedere vicino a lui e ad altri ragazzi e questa diventò la mia routine per il pranzo. E diventò anche la successiva briciola di pane sul tragitto che mi portò a casa, che mi portò da Noah.

Tutto iniziò un normalissimo venerdì. Non avevo idea che la mia vita stesse per cambiare. Diamine, cambiare è un eufemismo: la mia vita stava per migliorare, stava per esplodere, stava per iniziare.

Ben aveva invitato alcuni di noi, membri della squadra, a fermarsi a dormire da lui dopo la partita di quella sera. Avevo sentito da altri ragazzi che Ben aveva smesso di invitare gente a casa sua un paio d'anni prima, quindi erano tutti abbastanza eccitati per l'invito. Stavo per rifiutare, perché ero preoccupato di lasciare mia mamma da sola, ma lei aveva insistito.

“Una notte lontano da qui ti farà bene, tesoro. Non preoccuparti, non ti perderai niente di eccitante. Conterò tutte le volte che vomiterò durante la notte e ti farò il resoconto quando tornerai domani.”

Il fatto che riuscisse a scherzare mentre il suo corpo stava andando in pezzi sotto i suoi occhi era il testamento della forza e della bontà di mia madre.

“Sei sicura? Lo sai che non mi spiace stare qui, in caso tu avessi bisogno.”

Vivevamo in un piccolo appartamento con due stanze da letto che stava a poca distanza da casa dei miei zii. Io avevo la mia camera, ma dormivo con mia mamma da quando c’eravamo trasferiti. In quel modo potevo darle ciò di cui aveva bisogno di notte e accompagnarla in bagno quando aveva la nausea, cosa che accadeva quasi costantemente.

Lei si sollevò sulle mani tremanti, si alzò dal letto e mi picchiettò sulla guancia.

“Certo che ho bisogno di te, mio dolce ragazzo. Sei tutto il mio mondo, ma ho tutte le medicine, l'infermiera sarà qui alle cinque e probabilmente dormirei comunque quasi tutto il tempo. Starò bene.”

L'abbracciai delicatamente. Era tutta pelle ed ossa e avevo sempre paura di farle del male se l'avessi stretta troppo.

“Mi spiace non poter venire alle tue partite, tesoro. Sai che mi piacerebbe.”

Le baciai la fronte e trattenni le lacrime. La sua pelle era così fredda e appiccicaticcia.

“Non fa niente. Tanto sono sicuro che scalderò la panchina per tutto il tempo.”

Okay, non era vero. Non ero un gran giocatore, ma ero abbastanza bravo da intervenire a rotazione. E non è che avessi l'abitudine di mentirle, ma non volevo che stesse male al pensiero di perdersi la partita. So che sarebbe venuta se avesse potuto.


Edited by Karyn. - 10/4/2013, 22:47
 
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view post Posted on 22/4/2014, 10:04
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Dolcissimo e tenerissimo mi è piaciuto molto.

Una curiosità su Goodreads però dice che è il primo della serie come mai?
 
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